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mercoledì 2 dicembre 2015

TUTTO UN ALTRO CALCIO: GIANFRANCO ZIGONI, PELLICCE, PISTOLE E PAZZIE

di Roberto Pivato




Quando Valcareggi gli annunciò la panchina prima di un Verona – Fiorentina, lui non se la prese, ma si sedette tranquillamente, come niente fosse. Sopra la tuta giallo-blu, tuttavia, indossava una pelliccia e in testa calcava un cappello da cowboy. 
Questo era Gianfranco Cesare Battista Zigoni (Oderzo, 25/11/44), un calciatore che definire sopra le righe sarebbe quantomeno riduttivo. Fu famoso più per le sue bravate che per i successi sul campo, riducibili allo scudetto ‘66/’67 con la Juventus. Ma se gli chiedete i suoi ricordi più belli non vi parlerà degli anni in bianco-nero, i primi della sua carriera da professionista, bensì di quelli al Genoa, col quale retrocesse giocando anche in B; alla Roma, dove si innamorò della città e dei tifosi; ma soprattutto al Verona, nel quale diventò un idolo indiscusso. 
Chiuderà al Brescia dell’amico Gigi Simoni, ancora in cadetteria. Zigo non era certo tipo da sottostare a delle regole imposte. Niente alcool, fumo e sesso prima delle gare? Se capitava l’occasione non c’era partita che tenesse. Perché per lui il calcio non è mai stato tutto. Nei ritiri faceva passare il tempo sparando ai lampioni o sfrecciando nelle sue Porsche oltre i 200 all’ora. Si paragonava a Pelé, in questo sostenuto anche da opinioni illustri quali quelle di Giovanni Trapattoni o di José Santamaria. Detestava gli arbitri che accusava di essere al servizio del potere e quindi di agire in malafede: perciò accumulò più giornate di squalifica che gol. Come quella volta che gliene dettero sei. Venne espulso per aver mandato a quel paese un guardalinee e, a fine partita, mentre parlava con l’amico Renato Faloppa (che giocava nel Vicenza, avversario degli scaligeri quel giorno), rincarò la dose, poiché lo stesso collaboratore arbitrale gli si avvicinò per chiedergli cosa gli avesse detto di preciso prima: «Come ti permetti di interrompermi mentre sto parlando. La bandierina te la cacci su per il culo». 

Zigoni dopo un'espulsione, minacciato dal compagno di squadra Maddè
Però quando era in giornata, quando gli andava, era uno dei più forti, uno di quelli che la differenza la fanno davvero, tanto che al Bentegodi campeggiava uno striscione con su scritto: “Dio Zigo, pensaci tu”. Uno slogan che diventerà il titolo della biografia scritta su di lui dall’amico Ezio Vendrame. Zigoni non è mai stato propriamente un esempio da imitare, ma sapeva immancabilmente farsi amare dai suoi tifosi e farsi letteralmente seguire da loro. Come quella volta che in un’amichevole Verona – Vicenza saltò quattro avversari e la mise all’incrocio, per poi imboccare direttamente la strada degli spogliatoi. Tutto il pubblico a quel punto abbandonò gli spalti. Il loro idolo non era più in campo, cosa rimaneva da guardare? Piccolo particolare: alla fine della partita mancavano venti minuti. 
Ce ne sarebbero molti altri di aneddoti a dir poco curiosi su questo vero e proprio anarchico del calcio, ma noi chiudiamo col suo rifiuto, quando militava nel Brescia, di scendere il campo contro il “suo” Verona: «Avevo giocato sei anni nell’Hellas, quella era casa mia, a Brescia stavo da dio, ma non potevo andare a rubare nel mio salotto». 
Folle ma con un cuore.

giovedì 22 ottobre 2015

TUTTO UN ALTRO CALCIO: EZIO VENDRAME, ETICA E SREGOLATEZZA

di Roberto Pivato


Ad un certo punto un giocatore alto e magro, coi capelli lunghi e l'incedere ondeggiante prende palla, dribbla tutta la difesa, mette a sedere anche il portiere... è sulla linea di porta, può tranquillamente calciare e invece cosa fa? Si gira e torna indietro. Tutti tirano un sospiro di sollievo. Sì, perchè la porta era quella della sua squadra, così come i calciatori dribblati erano i suoi compagni. 
Questo celebre episodio è quanto di meglio per descrivere il calciatore in questione: Ezio Vendrame (Casarsa della Delizia, 21/11/47), il classico esempio di genio (quasi mai veramente manifestato) e sregolatezza (ampiamente documentata). La partita in questione era Padova-Cremonese, serie C 1976/77: Vendrame giocava coi bianco-scudati e il suo gesto fu una ribellione contro la combine tra le due formazioni. Così come quella volta, sempre coi veneti e nella medesima stagione, che inizialmente accettò un lauto premio dall'Udinese per giocare male, ma poi, fischiato dai suoi ex tifosi, decise di non rispettare il patto sfoderando una grande prestazione condita da due reti (una direttamente da calcio d'angolo, promettendo ai tifosi il gol prima ancora di calciare). Il Padova vinse e lui se ne tornò a casa con 44000 lire (premio partita dei veneti), anzichè 7 milioni (cioè quanto promessogli dai bianco-neri). 
Questo era Vendrame: uno con poca voglia di faticare, che non soffriva il professionismo esasperato del calcio, innamorato delle donne e dei bagordi, discontinuo e continuamente sballottato da una squadra all'altra. Ma anche un uomo col rispetto dei veri valori sportivi e del pubblico che andava a vederlo e che, infatti, lo amava. Finita la carriera mai completamente amata del calciatore, si dedicò brevemente a quella di allenatore, prima di mettersi a scrivere e raccontare la sua storia in alcuni libri (di cui il più famoso resta "Se mi mandi in tribuna, godo"). Alcuni lo chiamavano il "George Best italiano", altri lo paragonavano a Mario Kempes. Oggi certamente tutti lo metterebbero accanto a Balotelli. Niente di tutto questo. E poi il suo idolo era Gianni Rivera, tanto che quando gli fece un tunnel a San Siro gli chiese scusa per l'umiliazione. 


Questo era Ezio Vendrame: uno che i deboli di cuore (parole sue) non dovevano andare a vedere.

martedì 19 maggio 2015

TUTTO UN ALTRO CALCIO: ALGISO TOSCANI, IL CORAGGIO DELLE PROPRIE SCELTE

di Roberto Pivato


Gli insegnamenti di papà Italo gli sarebbero tornati utili in tempo di guerra. Era talmente bravo nel taglio della carne che i compagni di brigata lo soprannominarono scherzosamente “Boia”, e quello rimase il suo nome di battaglia. La brigata era quella partigiana numero 31, la Garibaldi Forni, lui era Algiso Toscani (Salsomaggiore Terme, 13/11/20 – 31/10/10), per gli amici Giso
Aveva scelto la resistenza sull’Appennino parmense Algiso, combattendo nel distaccamento Peracchi-Lindori. Prima aveva scelto il calcio, malgrado il padre fosse contrario, vedendolo già dietro il banco della macelleria a proseguire il mestiere di famiglia. Ma Giso era testardo e caparbio. Nell’estate del ’36 a Salsomaggiore arriva, per il ritiro precampionato, il grande Bologna di Felsner, lo “squadrone che tremare il mondo fa”. Un’occasione più unica che rara per mettersi in mostra. E allora eccolo dietro la porta, a fare il raccattapalle tutto il santo giorno, sperando di poter così sfoderare la sua tecnica. La sua costanza e la sua giovanile sfrontatezza vengono premiate: Felsner si accorge di lui e gli propone un provino. 
Dribblato anche il padre si presenta nel capoluogo petroniano e ottiene l’ingaggio nelle giovanili. Fa immediatamente scintille: ad un torneo internazionale conduce i suoi alla vittoria a suon di gol. Un prodigio! Nel ’39, non ancora ventenne, viene fatto debuttare in Coppa Italia, nella partita contro il Livorno. Giso non si fa travolgere dall’emozione e si fa un bel regalo di Natale, visto che si giocava alla Vigilia, il più bello per un attaccante: il gol. Sembra l’inizio di una fulgida ascesa, invece in prima squadra le porte gli vengono sbarrate dalla presenza di un mostro sacro quale Hector Puricelli e da un infortunio al menisco. Fino al prestito al Fidenza. Poi la guerra travolge tutto ed Algiso si ritrova nuovamente di fronte ad una scelta di vita importante e difficile. 
Sceglie la Resistenza, si arruola nella Garibaldi e si incammina su pei monti. Qui dimostra grande coraggio, spesso non esita a stare in prima linea. Come il 14 luglio 1944, quando una sua bomba a mano mette fuori uso un carro armato tedesco, dando simbolicamente il via al cosiddetto “Combattimento di Luneto”, che vide la strenua opposizione dei partigiani della brigata a cui apparteneva Giso ai militi nazisti, spiegati in grandi forze sull’Appennino parmense per rappresaglia. Cinque dei suoi compagni periranno in quell’occasione, lui si salverà, ed uscirà indenne dal conflitto. Finita la guerra riprenderà a giocare: un anno a Parma, due a Pescara, poi nuovamente nel capoluogo crociato. Col Bologna ha chiuso, i sogni di diventare un grande calciatore, magari di fama nazionale, sono definitivamente tramontati, ancor prima del dramma bellico. Ma Algiso è un uomo forte, ancor di più dopo le difficoltà della vita partigiana. Sa che una delusione non lo può mettere a terra. E poi c’è l’amore, il ritorno alla sua Salsomaggiore, dove appende gli scarpini al chiodo, allena, mette su famiglia e frequenta ininterrottamente la locale sezione ANPI, cercando di mantenere vivo anche nei più giovani il ricordo della lotta per la libertà. Primi fra tutti i figli, Giancarlo, Paola, Italo, lo stesso nome del nonno. Curiosamente sarà proprio Italo a seguire le orme del genitore, ciò che Algiso non aveva fatto nonostante le insistenze paterne, intraprendendo la carriera calcistica, pure lui per lo più al Parma. 

Giso con Francesco Guidolin ai tempi in cui allenava il Parma
Nel 2010, alla sua morte, lasciò una preziosa eredità. Molto più che calcistica!

giovedì 16 aprile 2015

TUTTO UN ALTRO CALCIO: MOACIR BARBOSA, IL PORTIERE CHE MORÌ DUE VOLTE

di Roberto Pivato


Ore 16.33, 16 luglio 1950, stadio Maracanã, Rio de Janeiro. La voce di Luis Mendes ripete ossessivamente, per nove volte: «Gol do Uruguay!». Intorno il silenzio è totale: la folla è sconcertata, si sente solo qualche risata di festeggiamento dei calciatori uruguaiani. A terra, come un corpo privo di vita, il portiere del Brasile, la squadra che tutti già consideravano campione del mondo, la quale invece ora sta perdendo, quando mancano dieci minuti alla fine. Moacir Barbosa Nascimento ha appena visto sfilare tra il suo braccio ed il palo la conclusione beffarda di Alcides Ghiggia. È la rete che di fatto regala la Coppa Rimet all’Uruguay, gettando il Brasile tutto nella disperazione. 
È l’attimo che cambia la vita del primo portiere nero della Seleção. Barbosa viene immediatamente considerato il maggior responsabile del Maracanaço, il capro espiatorio da sacrificare sull’altare della rabbia e della delusione di un popolo intero. Per non lasciare dubbi i giornali del giorno dopo titolano: «Barbosa, l’uomo che ha fatto piangere il Brasile». Su di lui se ne dicono tante, troppe: porta sfortuna, l’ha fatto apposta, un nero in porta non può che combinare danni… Nessuno dimenticherà mai quell’episodio: ovunque vada, Moacir viene indicato, evitato, come un appestato od un criminale. Ed è proprio un criminale che si sente quando afferma: «In Brasile la pena massima per il reato di omicidio è trent’anni di carcere; sono quasi cinquant’anni che io pago per un crimine che non ho commesso». Nel 1950 Barbosa aveva ventinove anni, era il titolare di una delle formazioni più forti del suo paese, il Vasco da Gama, e con la nazionale si era già aggiudicato il Campeonato Sudamericano de Football (quella che diventerà poi la Coppa America) dell’anno prima. Era noto per la sua abilità tra i pali, in particolare quella di parare i rigori; era felicemente sposato; la sua squadra di club andava a gonfie vele e lui si apprestava a diventare campione del mondo. Una vita perfetta insomma. Fino alle 16.33 di quel pomeriggio di luglio. 


Da lì in avanti cinquant’anni di emarginazione, di disprezzo da parte praticamente di tutti. Continua a giocare nel Vasco, non più per la nazionale; quando si ritira lavora come custode di una piscina, poi anche l’unica persona che lo amava veramente, sua moglie, muore. Moacir abbandona Rio de Janeiro e si trasferisce dalla cognata, vivendo con una misera pensione che ha dovuto supplicare al suo ex club. Ma le umiliazioni non si fermano qui! Un giorno al supermercato una signora con un bambino lo riconosce e, mostrandolo al piccolo, gli spiega: «Quello è l’uomo che ci ha fatto perdere il mondiale». Nel ’93 gli viene il desiderio di andare a salutare la selezione verde-oro, prima di un match di qualificazione alla coppa del mondo. Gli impediscono perfino di entrare. 


A nulla vale il suo tentativo scaramantico di liberarsi del fantasma di quella maledetta partita. Quando tredici anni dopo il mondiale le porte del Maracanã vengono tolte e sostituite, Barbosa si fa consegnare i pali. La sera invita i pochi amici rimastigli a cena e prepara un barbecue. Nessuno sospetta che la legna che brucia sia quella delle porte del famoso stadio. Una celebre fotografia ritrae il portiere su una di quelle porte, la rete tra le mani, lo sguardo triste, consapevole della gravità di quanto successo, che guarda il vuoto, immediatamente dopo il sigillo di Ghiggia. È l’immagine perfetta della solitudine e dell’abbandono di quell’uomo, costretto a pagare per cinquant’anni la colpa di un gol subito. Il 7 aprile del 2000 Barbosa si è spento: al suo funerale poche persone, nessun compagno di squadra e nessun rappresentante delle istituzioni. Alla sua prima morte, alle ore 16.33 del 16 luglio 1950,  era presente una folla di duecentomila persone. 

giovedì 12 marzo 2015

TUTTO UN ALTRO CALCIO: SÁNDOR SZŰCS, IL MARTIRE DEL CALCIO UNGHERESE

di Roberto Pivato




Sándor Szűcs (Szolnok, 23/11/21 - Budapest, 04/06/51) era un eccellente difensore dell'Újpest, e prima ancora della squadra del suo paese natale. Giocò con grandi campioni, quali Ferenc Szusza e Gyula Zsengellér, e disputò anche diciannove gare con la nazionale, al fianco di mostri sacri come Ferenc Puskás, József Bozsik, Ferenc Deák, György Sárosi... tutta gente che dette vita al mito dell'Aranycsapat. Lui però nella “Squadra d’oro” non poté giocare. Infatti era stato ammazzato prima, il 4 giugno del '51. In Ungheria il regime comunista sale al potere nel '49, con tutta la sua crudeltà e le sue profonde ingerenze in ogni ambito della vita. Non c’è sfera che sfugga al controllo degli organi del governo di Mátyás Rákosi, il famigerato e spietato segretario del Partito Comunista Ungherese, uno che aveva inventato la “tattica del salame”, cioè l’eliminazione “fetta a fetta” degli oppositori. Ad occuparsi dell’individuazione, della cattura e dell’esecuzione dei dissidenti era l’AVO[1], la temutissima polizia segreta. Szűcs è famoso e sposato con figli. Quando inizia una relazione amorosa con la cantante e attrice Elizabeth Kovacs, nota come Erzsi e pure lei coniugata, la cosa non può sfuggire al regime. E non può essere che condannata da esso. 

Elizabeth Kovacs - Erzsi


Partono le prime minacce che si trasformano ben presto in imperativo: la relazione deve essere troncata. In caso contrario non c’è bisogno di spiegare le conseguenze. Szűcs non è disposto a rinunciare alla sua libertà, alla sua felicità; non può sottomettere i propri sentimenti al volere dispotico dello stato. Così programma la fuga all'estero, a Torino, dove spera di trovare un ingaggio presso la locale squadra di calcio granata. Il piano è quello di attraversare il confine con la Jugoslavia, grazie all’aiuto dei contrabbandieri. È l’unico modo, visto che le frontiere sono rigidamente controllate dalla polizia. 
Il 6 marzo i due innamorati partono. Sándor porta con sé una pistola e le ultime, poche speranze di libertà. Vengono arrestati e subito condotti alla tristemente celebre “Casa del Terrore” dell'AVO. 

La "Casa del terrore" dell'AVO, oggi museo.

Dopo mesi di prigionia e torture arriva la sentenza: condanna a morte per alto tradimento per lui, quattro anni di prigionia e cinque di astensione dall’attività pubblica per lei. Il piano del regime era quello di mostrare agli altri calciatori famosi cosa sarebbe successo loro se avessero tentato di emigrare. Ed è un piano che funzionò, visto che nessun altro tentò la fuga. La morte di Szűcs, avvenuta per impiccagione il 4 giugno 1951, venne tenuta nascosta fino al 1989, anno della caduta del comunismo. La stessa Erzsi, in carcere, non conobbe la sorte dell’innamorato fino al 1954. Tutti avevano dimenticato quel difensore della formazione della polizia della capitale. Quando si seppe la sconcertante verità, tuttavia, Sándor divenne un simbolo di dissidenza e il suo nome, nella nazione magiara, è ancora tristemente legato a quello dell'unico martire del calcio.


[1] L’Államvédelmi Hátósag (letteralmente Autorità per la Protezione dello Stato, abbreviata a volte in AVH) fu attiva dal 1945 al 1956 e aveva il suo quartier generale a Budapest, al 60 di Andrássy út.

mercoledì 11 febbraio 2015

TUTTO UN ALTRO CALCIO: ÉTIENNE MATTLER, DIFESA E RESISTENZA

di Roberto Pivato

Mattler con la Coppa di Francia del '37

Quando nel ’44 lo videro tornare, a Sochaux non credevano ai propri occhi. 
Le notizie giunte assicuravano che era morto, come tanti altri, in un campo di prigionia nazista. E invece eccotelo lì, come il tempo non fosse mai passato da prima della guerra. Non solo era vivo, ma voleva pure tornare a giocare. E come si poteva dirgli di no?! Lui era Étienne Mattler (Belfort, 25/12/05 – Sochaux, 23/03/86), mica uno qualsiasi! 
Col Sochaux aveva giocato dal ’29, fino a quando l’invasione nazista fermò anche il calcio, e lui, dopo essere stato baluardo della retroguardia giallo-blu, decise di esserlo anche della Resistenza. Combatté i tedeschi, fu catturato e deportato e tutti lo credettero morto. Invece lui era scappato. Si era divincolato dalla marcatura teutonica e, per una volta, aveva fatto come le punte, quelle svelte, che non sai mai da quale parte andranno. Ne aveva marcata di gente così! E quasi sempre aveva avuto la meglio lui. Chissà come sarebbe andata a ruoli invertiti? Andò bene. 
Mattler evase e si rifugiò in Svizzera, finché le cose non cominciarono a migliorare, Parigi venne liberata nell’agosto del ’44 e lui poté rivedere la Francia. Da giovane aveva giocato nella formazione del suo paese, Belfort; poi due anni allo Strasburgo e, infine, l’approdo ai Les Lionceaux. Qui vince due campionati e una coppa nazionale e si consacra come forte difensore (lo chiamavano le balayeur, cioè lo spazzino, il netturbino). Se ne accorgono pure in nazionale e Mattler prende parte ai primi tre mondiali della storia. Diventa anche capitano dei Bleus, dimostrando tutto il suo carisma e coraggio in un’occasione particolare: il 4 dicembre 1938, a Napoli, si svolse un’amichevole tra l’Italia (fresca campione del mondo per la seconda volta, proprio in terra francese) e i transalpini. Il clima non era certo dei migliori: le tensioni fra i due paesi erano forti e durante la coppa del mondo i calciatori azzurri erano stati continuamente fischiati dai supporter locali (anche e soprattutto per il loro saluto romano all’inizio delle partite).

Meazza e Mattler al calcio d'inizio di Italia - Francia del '38 

Alla vigilia dell’incontro amichevole, nell’albergo partenopeo dove la nazionale francese era allocata, Mattler si mise a cantare a squarciagola “La Marsigliese”, seguito dai propri compagni. Un semplice gesto che infuse però coraggio e serenità a quei calciatori che, se non erano proprio impauriti, avrebbero sicuramente desiderato trovarsi altrove. Durante la gara, com’era prevedibile, il pubblico di casa si prese la sua stupida rivincita: fischi e offese in continuazione nei confronti dei giocatori avversari, in particolare verso quelli di colore. Difficile giocare in quelle condizioni; avvilente quantomeno. Deve essersene accorto il capitano, il quale, malgrado una clavicola danneggiata, rimane in campo per tutto il match per sostenere e infondere morale ai compagni. Appena tornato era naturalissimo per lui presentarsi subito alla sua squadra, forse ancora prima che ai suoi familiari od amici. D’altra parte la passione non si placa, nemmeno con le guerre, nemmeno con la prigionia e l’esilio. Étienne riprende il suo posto nella difesa del Sochaux, soprannominata emblematicamente “Linea Maginot”. Nella stagione ‘45/’46 ricopre anche il doppio ruolo di allenatore-giocatore, poi decide di fare il ct a tempo pieno. Guida il Thillot fino al 1949, poi il ritiro. 
La morte, quella vera stavolta, arriva nell’ ’86. A Sochaux non lo vedranno più tornare.

lunedì 19 gennaio 2015

TUTTO UN ALTRO CALCIO: CARLO CASTELLANI, TRAGICA FINE DI UN BOMBER QUALUNQUE

di Roberto Pivato


La notte tra il 7 e l’8 marzo 1944 i fascisti bussarono alla porta di Carlo Castellani (Montelupo Fiorentino, 15/01/09 – Mauthausen, 11/08/44), nella minuscola frazione di Fibbiana, all’interno del piccolo comune di Montelupo Fiorentino. Era un’operazione di rastrellamento in piena regola, provocata dal grande sciopero nelle fabbriche del 3 marzo, indetto dal CNL nazionale. Cercavano David Castellani, nonno di Carlo, socialista convinto e noto anche al regime. Ma il vecchio stava poco bene, così fu il nipote, allora trentacinquenne a prendere il suo posto sulla camionetta nera. Credeva di tornare subito nella sua abitazione, dopo aver date le spiegazioni richieste in caserma, invece il suo triste destino fu ben diverso e simile a quello di molti altri antifascisti dell’empolese. Prima tappa Firenze, schedatura da parte delle SS e conseguente deportazione a Mauthausen. Con lui quasi cento empolesi con l’unica colpa di essere antifascisti. Non fece più ritorno il giovane Carlo. Morì pochi mesi dopo nel famigerato campo di concentramento.

Lui che era stato il più grande attaccante dell’Empoli, ma un uomo normale, come tanti altri, se ne andò proprio come tanti altri: vittima della crudeltà e della lucida follia sterminatrice del nazifascismo. Iniziò a giocare con la formazione empolese, appena formatisi, nei campionati regionali e con le sue reti (16 in 18 partite) condusse gli azzurri alla Seconda Divisione (terza serie italiana). Rimase ad Empoli fino al ’30, guadagnando un’altra promozione nella stagione ‘28/’29: la sua media quell’anno fu di una marcatura a partita, 22 su 22 incontri. Castellani era pronto per il grande salto in A. Si accasò nella vicina Livorno, ma le cose non andarono come previsto. Pochi gol, presenze discontinue e la cessione al Viareggio, allora in B, nel ’33. Nemmeno in bianco-nero, tuttavia, riuscì a ritrovare la continuità di inizio carriera. Dopo un solo anno fece ritorno all’Empoli, dove rimase con alterne fortune fino al ’39. Poi smise, ma, con le sue 61 realizzazioni, rimase il bomber azzurro più prolifico fino al sorpasso da parte di Francesco Tavano, avvenuto soltanto nel 2011. 


Le sue terre non si dimenticarono di lui: gli sono infatti intitolati lo stadio di Montelupo Fiorentino e quello di Empoli. Anche a Mauthausen fu affissa una targa che, ancora oggi, lo ricorda.

giovedì 4 dicembre 2014

TUTTO UN ALTRO CALCIO: CLAUDIO TAMBURRINI, LA GRANDE FUGA

di Roberto Pivato



A metà anni ’70 l’Almagro era una squadra argentina di Primera B (la terza serie, l’equivalente della nostra serie C … pardon: Lega Pro). Il club si trovava in uno dei tanti barrio di Buenos Aires, in piena periferia. Insomma: non proprio l’eden calcistico. Portiere di quella formazione era Claudio Marcelo Tamburrini, un ventunenne studente di filosofia. El Tricolor si comporta bene e sfiora la promozione. Intanto però nel paese le cose precipitano: il generale Videla ha preso il potere con un golpe e ha instaurato una dittatura sanguinaria. I dissidenti iniziano a sparire, nessuno sa esattamente che fine facciano: sono i desaparecidos.
Ma anche chi non è apertamente contrario a Videla non può stare tranquillo: basta essere sospettati di sovversione perché arrivi uno squadrone della morte a sequestrarti e portarti in uno dei tanti centri di detenzione (definizione politicamente non troppo scorretta di luogo di tortura, lager). È ciò che capita a Tamburrini il 23 novembre 1977. Su delazione di un suo conoscente, prassi piuttosto diffusa, viene prelevato dalla sua abitazione e condotto nel carcere di Mansión Seré, a Castelar, cittadina poco distante dalla capitale. Qui lo spogliano e lo picchiano selvaggiamente assieme ad altri compagni di sventura.
Claudio non parla, non saprebbe nemmeno cosa dire, poiché, alla fin fine, è solo un simpatizzante del Partito Comunista a cui è iscritto da anni. Le torture durano quattro mesi, poi Claudio, Guillermo, Carlos e Daniel, i suoi compagni di prigionia, decidono per la fuga. Il 24 marzo del ’78, secondo anniversario del colpo di stato di Videla, i quattro si calano con dei lenzuoli da una finestra del carcere; fuori impazza la bufera, loro sono ancora nudi. Dopo varie peripezie e mesi di latitanza in Argentina, Tamburrini riesce a fuggire in Brasile e da qui in Svezia, dove avrebbe terminato gli studi, diventando professore universitario, e avrebbe messo in piedi la sua famiglia.
Intanto il primo giugno 1978 prendono il via i mondiali argentini, fortemente voluti dal regime come propaganda. La nazionale di casa vince, com’era nelle previsioni e come doveva essere. Claudio guarda le partite nei suoi nascondigli e tifa per l’Argentina. Una contraddizione forte, ben viva anche alla coscienza di Tamburrini che ammetterà: «Vedevo le partite in televisione e tifavo perché la Nazionale vincesse. Com’era possibile, considerando l’esperienza che avevo appena vissuto?». Una dimostrazione di quanto la propaganda, anche sportiva, possa risultare efficace e di come il calcio possa tristemente diventare oggetto di manipolazione di massa da parte del potere.

Claudio Tamburrini oggi

Claudio Tamburrini narrerà la sua avventurosa vicenda nel libro Pase Libre – La fuga de la Mansión Seré. Il regista Israel Adrián Caetano lo trasporterà sul grande schermo nel 2006, intitolando il suo film Cronaca di una fuga – Buenos Aires 1977 (Crónica de una fuga).

giovedì 13 novembre 2014

TUTTO UN ALTRO CALCIO: STAN CULLIS, IN PANCHINA MA INTEGRO

di Roberto Pivato



Quando l’ambasciatore inglese in Germania, Sir Neville Henderson, comunicò al segretario della Federazione Calcistica inglese, Stanley Rous, la volontà espressa dal Primo Ministro in persona, Arthur Neville Chamberlain, di far fare il saluto nazista ai propri calciatori schierati al centro dell’Olympiastadion di Berlino, qualcuno fece le proprie rimostranze. 
Non fu l’allenatore Tom Whittaker, uno che poi partecipò come pilota dell’aeronautica britannica al D-Day ricevendo anche una medaglia al valore; né il capitano Eddie Hapgood, che pure nella sia autobiografia descriverà quel momento come il più vergognoso della sua vita; né tantomeno il giocatore più rappresentativo della nazionale di Sua Maestà, il celeberrimo Stanley Matthews. Nessuno di loro ebbe il coraggio di rifiutare, o forse semplicemente la percezione di avvallare con quel gesto un regime dittatoriale che già aveva iniziato a mostrare il suo volto più crudele (l’Anschluss austriaca era cosa fresca di due mesi appena), ma che ancora doveva gettare l’Europa e il mondo intero nel baratro della seconda guerra mondiale. 
Soltanto un giocatore inglese non volle alzare il suo braccio destro e stendere la mano ben ferma e aperta di fronte ai 105000 presenti allo stadio, tra cui i gerarchi Hermann Goering, Rudolf Hess e Jospeh Goebbels (il Führer era ancora in visita in Italia a Mussolini): si trattava di Stanley Cullis, l’arcigno difensore del Wolverhampton, nemmeno ventiduenne, alla sua quinta convocazione in nazionale. 
Quel 14 maggio del ’38 “Stan” doveva essere tra gli undici titolari, ma il suo braccio lungo il fianco avrebbe di certo stonato vicino a quelli ben eretti dei suoi compagni. Uno sgarbo che non era il caso di fare al paese ospitante, che sarebbe stato sicuramente interpretato male e avrebbe inclinato i già difficili rapporti col regime di Hitler. Così Cullis finì in panchina, libero di tenere le braccia come più desiderava mentre osservava i suoi compagni vincere piuttosto nettamente 3-6. 


Non dev’essere stato facile per un giovanotto esuberante e ad inizio carriera rinunciare a quel match, amichevole sì, ma comunque di prestigio. Tanto più che il destino gli fece perdere gli anni migliori della sua carriera proprio a causa del conflitto bellico. Le sue presenze con la maglia dell’Inghilterra, alla fine, saranno soltanto dodici, con la soddisfazione però di essere stato il più giovane capitano della nazionale dei Tre Leoni, in occasione dell’ultima gara da lui giocata, in Romania il 24 maggio del ’39. Cullis è poi diventato una leggenda del Wolverhampton, formazione nella quale ha militato praticamente per tutta la carriera, non riuscendo, anche in questo caso beffardamente, a vincere nulla, visti i soventi secondi posti. Se non altro si rifece da allenatore, sempre dei Wanderers. Altri presenti con lui a Berlino quel 14 maggio, anche se col braccio alzato, hanno sicuramente contato di più nel panorama calcistico britannico. 
Stanley, tuttavia, non ha mai dovuto fare i conti con la propria coscienza per quel giorno di primavera poco prima che il mondo cambiasse per sempre.

mercoledì 22 ottobre 2014

TUTTO UN ALTRO CALCIO: AFONSINHO, IL SOLO UOMO LIBERO

di Roberto Pivato


«Conosco solo un uomo libero nel mondo del calcio». A dire queste inequivocabili parole è stato niente meno che Pelé. L’uomo a cui faceva riferimento risponde al nome di Afonso Celso Garcia Reis, noto semplicemente come Afonsinho. Brasiliano, classe ’47, talentuoso centrocampista del Botafogo degli anni ’60 e ’70, fu uno dei tanti calciatori che non si sottomisero alla dittatura del maresciallo Castelo Branco, che caratterizzò un ventennio della storia del paese (dal ’64 all’ ’85). 
L’allora allenatore dei bianco-neri di Rio de Janeiro era Mario Zagallo, uno che aveva appena guidato la Seleção alla conquista della Rimet in Messico. Ma Zagallo era vicino alla giunta militare, così come il presidente della squadra. Questo creò un immediato attrito tra calciatore e mister, tanto che Afonsinho - oppositore del potere, studente di medicina, democratico e impegnato a sostenere le fasce deboli della popolazione -  fu minacciato di esclusione dalla squadra se non avesse modificato le sue abitudini, il suo stile di vita, il suo look (barba e capelli lunghi, troppo facilmente identificabili con l’aspetto stereotipato di un comunista) e le sue convinzioni. Da allora in avanti avrebbe dovuto preoccuparsi soltanto del fútbol. 
Facile compromesso, se davanti non ci fosse stato un uomo libero e fiero, ancor prima di un giocatore di classe. Afonsinho rifiutò. Fu estromesso dal Botafogo e costretto a smettere di prendere a calci un pallone. Continuò tuttavia imperterrito a prendere a calci chi per comandare si affidava a violenze e soprusi. Partendo da coloro che lo facevano nel mondo del calcio. I calciatori allora “appartenevano” totalmente al club; se perciò la società impediva loro di giocare, mettendoli fuori rosa come in questo caso, essi non avevano alcuna possibilità di cambiare squadra. Afonsinho non si dette per vinto ed iniziò una lunga battaglia legale, affiancato dal padre e da alcuni amici avvocati, per ottenere il diritto allo svincolo, cioè alla possibilità da parte di un calciatore di abbandonare una società per un’altra qualora lo desiderasse. Anche questa sua campagna gli costò molto: il posto in nazionale. Tuttavia Afonsinho vinse: i calciatori brasiliani divennero padroni del proprio destino calcistico.


Dopo il ritiro dai campi di gioco Afonsinho divenne psichiatra e si candidò anche in politica col Partito Socialista. Le sue lotte a favore dei più deboli e per la tutela dei diritti di tutti continuano ancora oggi, perché egli è un uomo libero nel mondo, non solo del calcio.

Fonte: brasile2014.actionaid.it
Sulla vicenda di Afonsinho esiste un documentario, in portoghese, del regista Oswaldo Caldeira: Passe Livre (1974).
Inoltre, Gilberto Gil ha dedicato una canzone ad Afonsinho, dal titolo Meio de Campo che potete ascoltare nel video pubblicato.

martedì 29 aprile 2014

TUTTO UN ALTRO CALCIO: LA LEGGENDA DI SARNANO, MEGLIO LIBERI CHE VINCENTI

di Roberto Pivato


Sarnano è un piccolo comune di collina in provincia di Macerata, al centro dei Monti Sibillini, con poco più di tremila abitanti. Un borgo medievale caratteristico che offre come principali attrazioni una stazione termale e una sciistica. Uno dei molteplici piccoli comuni italiani ignoti per lo più a chi non è delle vicinanze… un po’ come nominare Carmignano ad un marchigiano. A Sarnano c’è uno stadio di calcio intitolato ad un certo Mario Maurelli. E anche questo nome vi dirà poco niente. 
Maurelli era un arbitro tra i più noti negli anni ’40, sia a livello nazionale che internazionale. È il periodo buio della seconda guerra mondiale, l’Italia, dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, è invasa dalle truppe naziste; il calcio è cosa che non appartiene più alla vita di tutti i giorni, non è più normalità. Eppure un giorno, alla porta dell’arbitro Maurelli, bussa un ufficiale tedesco che vuole organizzare una partita tra le sue truppe e una squadra di giovani del luogo, per sollevare il morale dei suoi soldati, abbattuti per il lungo conflitto e per la distanza da casa. Piccolo particolare: i giovani di Sarnano sono tutti o renitenti alla leva o partigiani. 
Naturale perciò che Maurelli pensi ad una trappola per attirarli e arrestarli. Il tedesco però garantisce che finito l’incontro saranno tutti liberi di andarsene, ma la partita si deve fare. Un rifiuto è impossibile, così Maurelli, attraverso il fratello partigiano Mimmo, riesce a racimolare undici tra combattenti e fuggiaschi che, seppure a malincuore e col terrore di essere deportati, accettano di disputare questo match tanto voluto dai loro nemici. Per rassicurarli Maurelli garantisce che l’arbitro sarà lui e che giocherà pure il fratello. Così il 1 aprile ’44 a Sarnano va in scena una strana partita di calcio. I tedeschi si dimostrano dei veri e propri brocchi; gli italiani non vogliono però approfittarne per timore di ritorsioni, ma dopo pochi minuti Grattini di testa non può non mettere dentro. 
A pochi minuti dal termine il risultato è ancora di 1-0. Maurelli nel frattempo ha espulso il fratello e un tedesco per reciproche scorrettezze. I marchigiani capiscono che bisogna far pareggiare i nazisti: la partita da vincere è ben altra che quella di pallone. 
Così è Libero Lucarini, schierato terzino, che decide di dare una mano ai suoi avversari e nemici, scivolando appositamente e lasciando via libera all’attaccante teutonico che sigla il pareggio. Maurelli fischia subito dopo la fine della gara: i tedeschi rimangono al campo a ristorarsi, mentre partigiani e renitenti se la danno a gambe levate e tornano in montagna. Poco più di un anno dopo il copione si invertirà, ma quel giorno, per i ragazzi di Sarnano, la vera vittoria fu non vincere.


Nb: su questo episodio, oltre ad alcuni racconti in rete su blog o siti, esiste un documentario di Umberto Nigri, intitolato “La leggenda di Sarnano”, in cui due dei protagonisti della partita, Libero Lucarini e Mimmo Maurelli, forniscono la loro testimonianza sull’accaduto.

martedì 25 marzo 2014

TUTTO UN ALTRO CALCIO: SÓCRATES, LA DEMOCRAZIA NEL PALLONE

di Roberto Pivato


Nel 1982 il Brasile è governato da una dittatura ormai da quasi vent’anni. A San Paolo c’è una squadra di calcio, fondata ad inizio ‘900 da operai, che fin’ora è rimasta pressoché nell’anonimato, a causa dei scarsi risultati ottenuti sul campo: il Corinthians. In quello stesso 1982 Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, per tutti semplicemente e solamente Sócrates, è un ragazzo di 28 anni, un campione noto a tutti per le sue straordinarie doti coi piedi, ma dotato anche di un’intelligenza acuta e di un non comune senso sociale nell’ambito calcistico. 
D’altra parte quando si ha un nome così impegnativo, che il padre gli diede dopo la lettura de La Repubblica di Platone, è destino che non si debba essere una persona qualunque. Soprannominato il “Magro” (per la sua corporatura alta e smilza), oppure il “Dottore” (per la sua laurea in medicina), Sócrates è un talento purissimo, un calciatore dotato di infinita intelligenza tattica, visione di gioco e abilità tecnica (un altro suo nomignolo era “il tacco di Dio”, a causa della sua predilezione per questo tipo di giocata spettacolare). 
È però anche un personaggio piuttosto controverso ed eccentrico: look che non passa certo inosservato, con capelli lunghi e folta barba; tendenze politiche di sinistra ampiamente dichiarate; poca tolleranza per la dittatura e per la vita professionale di un calciatore brasiliano dell’epoca. 
Tutto questo è Sócrates, il quale rimane, tuttavia, un idolo indiscusso del popolo carioca: il capitano della nazionale forse più spettacolare, ma non vincente, di tutti i tempi. Ai mondiali del 1982 i verde-oro, infatti, vengono fatti fuori dalla ben più concreta Italia, mentre in Copa America avevano racimolato un terzo posto nel ’79 e nell’ ’83 finiranno secondi. La rivincita “socratica” andrà però ben oltre l’aspetto puramente sportivo. Nel 1982 il “Dottore”, assieme ad altri compagni del Corinthians quali Wladimir e Casagrande, rifiutano l’autorità dell’allenatore e danno vita ad una sorta di autogestione interna: è l’inizio della “Democrazia Corinthiana”. 


Tutte le decisioni riguardanti la squadra (tattica, formazioni, allenamenti…) vengono prese in assemblee in cui il parere di ciascuno ha lo stesso potere (dal magazziniere al capitano), secondo il principio per cui: «una testa, un voto». In tal modo vengono presi provvedimenti scandalosi per la consuetudine calcistica brasiliana dell’epoca: niente ritiri, poiché portano sfiducia nel calciatore che avverte di dover essere controllato; possibilità di personalizzare le magliette bianco-nere di gioco con scritte che sveglino le coscienze sociali dei tifosi (la più famosa delle quali era la semplice: «Democracia», cioè «Democrazia»), o entrare in campo sostenendo uno striscione con scritto lo slogan: «Ganhar ou perder, mas sempre com democracia» («Vincere o perdere, ma sempre con democrazia»). 
Sembra una pazzia, eppure ha tantissimo successo tra il pubblico. Il Corinthians, da squadra mediocre e per lo più perdente, diventa un simbolo in tutto il paese e riesce perfino ad aggiudicarsi due campionati paulisti consecutivi (1982 e ’83). L’esperienza della “Democrazia Corinthiana” dura solo un altro anno, mentre la dittatura in Brasile cadrà definitivamente soltanto nel 1989. Certamente, però, l’esperienza innovativa di Sócrates e compagni ha contribuito affinché questo potesse accadere ed è stato certamente il più grande successo del “Dottore” il quale, al contrario, finirà tristemente la sua carriera (disputando anche una stagione deludente in Italia tra le fila della Fiorentina) e poi morirà, nel dicembre del 2011, per i suoi eccessi alcolici. Ma crediamo che per lui, il quale soleva dire che «essere campione è un dettaglio» rispetto ad essere un uomo, la democrazia in campo e fuori sia stata la soddisfazione che vale una vita.

martedì 18 febbraio 2014

TUTTO UN ALTRO CALCIO: BRUNO NERI, UN CALCIATORE, UN PARTIGIANO, UN UOMO

di Roberto Pivato



Questa foto è stata scattata nel 1931 a Firenze. Ritrae i giocatori di Fiorentina e Admiral Vienna schierati a centrocampo prima di disputare un’amichevole per l’inaugurazione del nuovo stadio. Quello stadio, che ora noi tutti conosciamo come Artemio Franchi, era inizialmente intitolato a Giovanni Berta, uno squadrista locale. I calciatori stanno compiendo il saluto romano ai gerarchi fascisti in tribuna. 
C’è però una particolarità a guardare bene: non tutti stanno col braccio alzato, il quarto ragazzo da sinistra rimane con le braccia lungo il busto. Quel ragazzo ha solo 21 anni e si chiama Bruno Neri, è nato a Faenza ed è stato acquistato dalla Fiorentina nel 1929. Coi viola guadagnerà la promozione in serie A e rimarrà in riva all’Arno fino al 1936, passando poi alla Lucchese e al Torino, dove, nel 1940, chiuderà, causa infortuni, la sua carriera professionistica. 


Bruno Neri è un mediano ordinato e con una grande visione di gioco. Le sue doti gli regaleranno anche tre convocazioni in nazionale, la prima risalente al 1936. Oltre al calcio le sue grandi passioni sono la letteratura, la poesia, l’arte. Conosce numerosi artisti, letterati e giornalisti e, anche grazie a loro, comincia a maturare il suo antifascismo che si manifesterà pubblicamente per la prima volta proprio in quella foto. Bruno torna a Faenza nel ’40 e riprende col calcio nella squadra locale. La guerra però irrompe con tutta la sua devastazione e Neri, dopo l’armistizio, decide di diventare partigiano, col nome di “Berni”. Il suo battaglione è stanziato nei pressi della Linea Gotica e, come compito principale, ha quello di recuperare il materiale dei lanci alleati. Bruno fa la spola tra gli Appennini e Faenza dove gioca il campionato Alta Italia del 1944, non ne potrà disputare altri. 
L’ultima presenza sul campo da calcio risale al 7 maggio, a Bologna; poco più di due mesi dopo (il 10 luglio), farà l’ultima comparsa della sua esistenza. “Berni” sta salendo per un sentiero in ricognizione, assieme al compagno Vittorio Bellenghi “Nico”, quando una pattuglia tedesca li vede. Inizia una sparatoria in cui hanno la peggio i due italiani. 


Sul luogo rimane una lapide a commemorare i due partigiani uccisi. A noi rimane il ricordo di un uomo grande, con la chiara decisione propria dei semplici, degli umili. Magari non un grande campione, non un fuoriclasse che ha vinto tutto, ma semplicemente un ragazzo di 21 anni, col coraggio di mostrare la propria dissidenza di fronte ad un regime ben più grande di lui. Ci rimane una foto che vale più di tante parole. 
Per chi volesse saperne di più sulla vicenda di Bruno Neri consigliamo il libro di Massimo Novelli dal titolo “Bruno Neri, il calciatore partigiano”.

martedì 14 gennaio 2014

TUTTO UN ALTRO CALCIO: MATTHIAS SINDELAR, UNA CARTAVELINA NON STRAPPATA DAL POTERE

di Roberto Pivato


Il 23 gennaio 1939 i corpi senza vita di Matthias Sindelar e della sua compagna, l’ebrea italiana Camilla Castagnola, vennero ritrovati nella casa viennese del celebre calciatore. Subito la Gestapo, con una celerità equivoca, provvide alla sepoltura e a liquidare il caso come: avvelenamento da monossido di carbonio dovuto al malfunzionamento di una stufetta. Perché abbiamo detto celerità equivoca? Perché Sindelar è uno di quegli uomini coraggiosi che hanno detto no al Terzo Reich, firmando così, con ogni probabilità, la propria condanna a morte. Il 12 marzo del ’38 la Germania nazista invade l’Austria, facendola diventare, da stato autonomo con un passato glorioso, un’anonima provincia del nuovo impero hitleriano. È l’Anschluss. Con l’annessione è destinata a terminare anche l’esistenza della nazionale austriaca di calcio, il famoso e fortissimo Wunderteam, la squadra forse più forte degli anni ’30. Prima che i migliori giocatori che la componevano venissero inglobati nella nazionale tedesca, in modo da rinforzarla in vista dei mondiali francesi di quell’anno, i gerarchi nazionalsocialisti “concedono” un’ultima partita all’Austria. Il 3 aprile, al Prater di Vienna, Austria e Germania danno vita a quella che doveva essere la resa accondiscendente, anche sul piano sportivo, della prima alla seconda. Sindelar e compagni indossano, per l’ultima volta, la maglia bianco-rossa che richiama i colori della bandiera nazionale. Il match fila via sui tranquilli binari di uno 0-0 che accontenta tutti, e soprattutto non scontenta gli invasori, quando, al 17’ della ripresa, il capitano austriaco mette a segno l’1-0 e, non contento, esulta come un pazzo sotto la tribuna dei gerarchi di Hitler. Sindelar era un attaccante di eleganza straordinaria: fisico esile, ma classe cristallina che gli meritarono il soprannome di “Mozart del calcio” e “cartavelina” (der Papierene). 


Nato in Moravia (regione dell’attuale Repubblica Ceca), si era trasferito con la famiglia povera a Vienna sin da piccolo e aveva legato il suo nome calcistico all’Austria Vienna. L’aver condotto la propria squadra a numerosi successi lo aveva reso il calciatore più celebre e amato in patria, e lo aveva al contempo fatto diventare l’oggetto dei desideri della Germania calcistica nazionalsocialista, la quale pensava, schierandolo nella propria formazione, di potersi aggiudicare il campionato del mondo del 1938. Tuttavia, dopo quel gol e quell’esultanza fuori luogo, tutti iniziarono a rendersi conto che “cartavelina” non avrebbe accettato tanto facilmente di compromettersi col Terzo Reich. A pochi minuti dalla fine arrivò anche il 2-0 austriaco: autore il terzino Karl Sesta. Il risultato non cambiò più, l’orgoglio austriaco aveva avuto la meglio sulla tracotanza tedesca. Ma non era finita: al momento dei saluti finali, dove era convenuto che si dovessero omaggiare le autorità col braccio teso, proprio i due marcatori se ne stanno con le braccia lungo il corpo. La sfida è chiara: non c’è riconoscimento e asservimento alla Germania, quei due non indosseranno mai la casacca tedesca. Infatti, nonostante le richieste pressanti dell’allenatore della selezione del Reich, Sepp Herberger (che stimava Sindelar come uomo, ancor prima che come calciatore, e che non si abbassò mai a strumento del potere), per prendere parte al mondiale con la nazionale bianco-nera, “cartavelina” rifiutò recisamente, adducendo come scusa ufficiale un acciacco al ginocchio e l’età ormai avanzata. I gerarchi dovettero però comprendere le reali motivazioni dell’asso viennese e, se non lo perseguitarono troppo pubblicamente e ferocemente, fu soltanto per la sua grande fama. Iniziarono però a far crollare tutto il mondo intorno a lui, a partire dalla sua squadra, sostanzialmente smantellata poiché buona parte della società era ebrea. Fino all’epilogo del 23 gennaio, tragico e oscuro, che pose fine all’esistenza del più grande calciatore austriaco di sempre: una cartavelina esile, ma non facilmente lacerabile. 

mercoledì 27 novembre 2013

TUTTO UN ALTRO CALCIO: CARLOS CASZELY, LE MANI DIETRO LA SCHIENA

di Roberto Pivato


La sera del 21 novembre 1973 la selezione calcistica cilena è al gran completo al Palazzo de La Moneda di Santiago. L’occasione è di quelle speciali: il presidente Pinochet vuole stringere le mani ad uno ad uno ai valorosi calciatori che sono riusciti nella lodevole impresa di qualificare il Cile per i mondiali in Germania Ovest dell’anno successivo. Tra questi calciatori ce n’è uno bassoccio e un po’ tracagnotto, con folti capelli neri e ricci e un paio di baffoni dello stesso colore. 
È il cannoniere del Colo Colo e della nazionale, l’amatissimo Carlos Caszely. Carlos è in fila e aspetta l’arrivo del dittatore, lui che era un sostenitore di Allende suicida l’11 settembre di quell’anno durante il golpe del generale. Carlos ripensa alla patetica messa in scena del pomeriggio: lo Stadio Nacional di Santiago è praticamente vuoto, ci sono solo soldati coi fucili puntati sulle tribune, uno strano odore di morte negli spogliatoi, un arbitro che si presta alla sceneggiata e i giocatori della Roja. Si dovrebbe disputare la gara di ritorno dello spareggio contro l’Unione Sovietica per l’accesso ai campionati del mondo. All’andata, in URSS, finì 0-0. I sovietici però si sono rifiutati di recarsi in Cile a giocare, ritenendo inaccettabile calcare un campo di calcio divenuto campo di prigionia e di tortura in un paese retto da una dittatura militare. La FIFA non sente ragioni (se non quelle della politica e degli interessi, sic!). Assegna la vittoria a tavolino al Cile, che si qualifica, e appoggia la ridicola farsa voluta dal regime. 
La nazionale di casa dovrà fare il suo ingresso in campo e giocare comunque, contro un avversario invisibile, segnare e farsi immortalare dai fotografi in atteggiamenti esultanti ad eterna memoria dello splendore della dittatura. Tutto procede secondo copione: i cileni si passano la palla e arrivano davanti alla porta incontrastati. Carlos riceve la sfera e pensa di buttarla fuori, anziché in rete, come segno di ribellione. Poi però si guarda intorno e ha paura dei fucili spianati su di lui. Tocca ad un compagno che mette in rete e viene fotografato mentre esulta come avesse segnato un gol vero. 
Al rientro negli spogliatoi non c’è nessuna gioia, solo vergogna mista a rabbia ed incredulità. Solo ora i calciatori cominciano a realizzare di aver preso parte a tutto tranne che ad una partita di calcio. 
Il Re del metro quadrato (così soprannominato per la sua capacità di trovarsi sempre al posto giusto in area di rigore per segnare) vede Pinochet avanzare verso di lui. Allora incrocia le mani dietro la schiena. Il dittatore è costretto ad accettare lo smacco e a passare oltre. 

Negli anni a seguire Caszely non saluterà mai Pinochet e deciderà, nel 1988, di fare qualcosa di concreto per opporsi al suo regime. Si svolge il referendum per assegnare o meno un nuovo mandato presidenziale al generale. Nelle previsioni dovrebbe essere un plebiscito di Sì, invece, grazie anche all’iniziativa di Caszely, il quale gira uno spot pro-No in cui compare la madre che racconta di essere stata catturata e torturata negli anni ’70, il No si afferma e il Cile torna ad essere un paese democratico dopo 15 anni. 
Carlos può così liberarsi di quel senso di vergogna e di complicità col regime che non lo aveva mai abbandonato da quel lontano 21 novembre 1973. 

martedì 29 ottobre 2013

TUTTO UN ALTRO CALCIO: ALEKSEY KLIMENKO, L’IMPORTANZA DI NON FARE GOL

di Roberto Pivato

Quando Aleksey Klimenko, quel caldo 9 agosto 1942 allo stadio Zenit di Kiev, si trovò la porta spalancata e più nemmeno un avversario da dribblare, ci pensò su un attimo, poi, sorridendo di sfida alle tribune, anziché calciare in fondo alla rete, si girò e mandò il pallone verso la metà campo. L’arbitro fischiò immediatamente la fine, ben in anticipo sui 90 minuti. 
E con la fine della partita fischiò anche la fine della vita di otto dei ventidue giocatori in campo.

Il match di cui stiamo parlando è quello svoltosi in Ucraina, sotto la dominazione nazista, tra l’FC Start e la Flakelf. La prima è una scalcagnata formazione composta per otto undicesimi da ex-giocatori della Dinamo Kiev (tra cui Klimenko), mentre gli altri tre appartenevano alla Lokomotiv, altra compagine della capitale; la seconda è una fortissima selezione di ufficiali della Luftwaffe. Una gara che doveva sancire la superiorità ariana sull’occupato sovietico e riparare al clamoroso 5-1 rifilato tre giorni prima dagli ucraini agli stessi tedeschi. Kiev ospitava in quell’estate un piccolo torneo, organizzato dagli occupanti, a cui prendevano parte altre sei formazioni composte per lo più da collaborazionisti filo-nazisti di varie nazionalità. La Start batté facilmente queste avversarie, arrivando allo scontro decisivo contro la ben più quotata (e più in forma, visti gli stenti in cui vivevano i giocatori di casa) Flakelf. È il 6 agosto e Klimenko e compagni si impongono ancora una volta senza difficoltà. Questo però rovinava i piani e l’immagine dell’invasore, oltre a dare forza e convinzione per resistere alla popolazione di Kiev. Così la Flakelf venne ulteriormente rafforzata e il 9 agosto venne programmata la “rivincita”. Stavolta il risultato doveva essere uno solo: successo tedesco. Per non correre alcun tipo di rischi l’arbitro fu un ufficiale SS il quale, prima dell’inizio, raccomandò alla Start di perdere e di fare il saluto nazista Heil Hitler verso la tribuna ai gerarchi del Fuhrer. Ordine subito disobbedito: gli undici in maglia rossa urlarono invece il tipico motto dello sport sovietico: Fitzcult Hurà! (viva la cultura fisica). Il direttore di gara arbitrava a senso unico e sugli spalti le mitragliatrici erano spianate in direzione dei calciatori ucraini. Perciò l’avvio fu favorevole alla Flakelf. Tuttavia, a fine primo tempo, la Start conduceva 3-1, tant’è che si rese necessario un nuovo intervento di un militare teutonico per rammentare gli esiti tragici di un risultato non previsto. Minaccia che parve fare effetto ad inizio ripresa. Due gol in pochi minuti e parità ristabilita. A questo punto però la dignità, l’incoscienza e la volontà di non essere brutalmente sottomessi anche in un campo di calcio fecero sì che Klimenko e compagni non stessero ai patti, portandosi sul 5-3. Già questo bastava a condannarli a morte ed essi ne erano fin troppo consapevoli. Il gesto che pose definitivamente termine alla contesa fu l’affronto di Klimenko: lo sgraziato terzino, con un’irresistibile serpentina, saltò come birilli quattro o cinque tedeschi, portiere compreso, e invece di realizzare il sesto gol ricacciò la sfera indietro come a dire: «Vi abbiamo dimostrato di essere più forti di voi, di non aver paura delle vostre minacce e della vostra forza. Ve lo dimostreremo ancora ed ancora, ogni volta che sarà necessario. Forse ci ucciderete, ma vinceremo sempre noi».

Il manifesto della Partita della morte
 Questo incontro è stato ribattezzato “la partita della morte”. Il primo giocatore venne arrestato un mese dopo e morì dopo venti giorni di atroci torture. Gli altri furono tutti deportati in campi di concentramento dove persero la vita. Solamente tre riuscirono a fuggirne vivi. Aleksey Klimenko fu ucciso per rappresaglia, il 24 febbraio 1943, assieme a due suoi compagni di squadra, nel famigerato lager ucraino di Syrec. Il corpo venne gettato nell’enorme fossa comune di Babij Jar, tristemente famosa per aver accolto il cadavere di più di 100 mila vittime del nazismo.

La formazione dell' FC Start
Gli undici eroici calciatori di quel 9 agosto erano: Nikolai Trusevich (ucciso assieme a Klimenko), Mikhail Sviridovskiy (sopravvissuto), Nikolai Korotkikh (il primo a morire), Aleksey Klimenko, Fedor Tyutchev (sopravvissuto), Mikhail Putistin, Ivan Kuzmenko (ucciso assieme a Klimenko), Makar Goncharenko (l’unico sopravvissuto ad aver raccontato quanto avvenuto), Vladimir Balakin, Vasiliy Sukharev, e Mikhail Melnik.