Quando
Valcareggi gli annunciò la panchina prima di un Verona – Fiorentina, lui non se
la prese, ma si sedette tranquillamente, come niente fosse. Sopra la tuta
giallo-blu, tuttavia, indossava una pelliccia e in testa calcava un cappello da
cowboy.
Questo era Gianfranco Cesare Battista Zigoni (Oderzo, 25/11/44), un
calciatore che definire sopra le righe sarebbe quantomeno riduttivo. Fu famoso
più per le sue bravate che per i successi sul campo, riducibili allo scudetto
‘66/’67 con la Juventus. Ma se gli chiedete i suoi ricordi più belli non vi
parlerà degli anni in bianco-nero, i primi della sua carriera da
professionista, bensì di quelli al Genoa, col quale retrocesse giocando anche
in B; alla Roma, dove si innamorò della città e dei tifosi; ma soprattutto al
Verona, nel quale diventò un idolo indiscusso.
Chiuderà al Brescia dell’amico
Gigi Simoni, ancora in cadetteria. Zigo
non era certo tipo da sottostare a delle regole imposte. Niente alcool, fumo e
sesso prima delle gare? Se capitava l’occasione non c’era partita che tenesse.
Perché per lui il calcio non è mai stato tutto. Nei ritiri faceva passare il
tempo sparando ai lampioni o sfrecciando nelle sue Porsche oltre i 200 all’ora.
Si paragonava a Pelé, in questo sostenuto anche da opinioni illustri quali
quelle di Giovanni Trapattoni o di José Santamaria. Detestava gli arbitri che
accusava di essere al servizio del potere e quindi di agire in malafede: perciò
accumulò più giornate di squalifica che gol. Come quella volta che gliene
dettero sei. Venne espulso per aver mandato a quel paese un guardalinee e, a
fine partita, mentre parlava con l’amico Renato Faloppa (che giocava nel
Vicenza, avversario degli scaligeri quel giorno), rincarò la dose, poiché lo
stesso collaboratore arbitrale gli si avvicinò per chiedergli cosa gli avesse
detto di preciso prima: «Come ti permetti di interrompermi mentre sto parlando.
La bandierina te la cacci su per il culo».
Zigoni dopo un'espulsione, minacciato dal compagno di squadra Maddè
Però quando era in giornata, quando
gli andava, era uno dei più forti, uno di quelli che la differenza la fanno
davvero, tanto che al Bentegodi campeggiava uno striscione con su scritto: “Dio
Zigo, pensaci tu”. Uno slogan che diventerà il titolo della biografia scritta
su di lui dall’amico Ezio Vendrame. Zigoni non è mai stato propriamente un
esempio da imitare, ma sapeva immancabilmente farsi amare dai suoi tifosi e
farsi letteralmente seguire da loro. Come quella volta che in un’amichevole
Verona – Vicenza saltò quattro avversari e la mise all’incrocio, per poi
imboccare direttamente la strada degli spogliatoi. Tutto il pubblico a quel
punto abbandonò gli spalti. Il loro idolo non era più in campo, cosa rimaneva
da guardare? Piccolo particolare: alla fine della partita mancavano venti
minuti.
Ce ne sarebbero molti altri di aneddoti a dir poco curiosi su questo
vero e proprio anarchico del calcio, ma noi chiudiamo col suo rifiuto, quando
militava nel Brescia, di scendere il campo contro il “suo” Verona: «Avevo
giocato sei anni nell’Hellas, quella era casa mia, a Brescia stavo da dio, ma
non potevo andare a rubare nel mio salotto».
Ritorna dopo la pausa anche il
quiz di Fuoriluogo che attiva la mente e ci proietta proprio là, dove la foto
ci vuol far volare. Occhio al dettaglio che vi può far scattare l’intuizione.
Le regole ormai le conoscete………
Vince solo chi arriva primo e scrive la
soluzione nel blog!!! La soluzione arriverà domani!
Indovinello
Puoi percorrermi di sera e di giorno
Magari all’andata, magari al ritorno
Del fiato sarò il tuo tormento
Anche se son vecchia e di cemento
Dove sono non te le posso raccontare
Anche se qui i muri si possono disegnare
Forza, che anche questa rubrica
ha in serbo tecnologiche novità, da farvi girar la testa! Alla prossima!!
Necati Yildizdal (il nome si legge Negiati) arriva in Italia per raggiungere i suoi fratelli che da anni lavorano a Como: un fratello ha scelto la strada dell’edilizia e lavora oggi come capocantiere, gli altri quella del commercio, uno possiede una macelleria, un altro lavora in un ristorante, lui li raggiunge dalla Turchia e quando un cugino presenta loro la possibilità di acquisire l’attività di un Doner Kebap a Carmignano di Brenta tocca a lui rimboccarsi le maniche e partire con questa attività imprenditoriale.
Dicci un po’ di te Necati, raccontati… vengo da Ankara e sono nato il 4 aprile del 1983. Ankara è la capitale della Turchia anche se non è la città più popolata perché Istanbul possiede 4 volte tanto i suoi residenti (oltre 13 milioni contro i 4,4 milioni di Ankara ndr), la città trabocca di storia ed è sede delle maggiori istituzioni politiche nazionali.
E la tua famiglia? sono sposato, e con mia moglie abbiamo due figli di 3 e 7 anni, loro vivono ad Ankara. Entrambi i miei figli parlano sia il turco che l’italiano perchè spesso vengono a trovarmi per lunghi periodi ed il più grande ha frequentato parte del suo percorso scolastico in Italia. Quando non vengono loro sono io che torno in Turchia e sto con loro per qualche settimana lasciando momentaneamente l’attività di Carmignano ad un mio parente.
Se dovessi promuovere i tuoi Kebap come li descriveresti? lascio che a farlo siano i miei clienti che riconoscono spesso il piacere di mangiare un Kebap da me; ogni settimana ne vengono mangiati circa 250 e sono felice di aver stretto buoni rapporti con molti dei miei clienti, dagli operai che lavorano nei turni notturni a cui periodicamente recapito un Kebap come spuntino di mezzanotte, fino ad uno dei miei clienti più affezionati che ci ha lasciato solo qualche mese fa alla veneranda età di 95 anni e che non perdeva mai il suo appuntamento settimanale con un pasto qui da me!
Quando ti manca la Turchia cosa fai? se non ho in programma di tornarci a breve vado con gli occhi alle foto che mi ha portato un caro amico carmignanese innamorato del mio paese. Di ritorno da uno dei suoi viaggi turchi mi regalò alcuni scatti portati da lì che ho appeso al muro del mio locale e che sono diventati il mio momento di evasione in caso di nostalgia.
Ad un certo punto un giocatore alto e magro, coi capelli lunghi e
l'incedere ondeggiante prende palla, dribbla tutta la difesa, mette a sedere
anche il portiere... è sulla linea di porta, può tranquillamente calciare e
invece cosa fa? Si gira e torna indietro. Tutti tirano un sospiro di sollievo.
Sì, perchè la porta era quella della sua squadra, così come i calciatori
dribblati erano i suoi compagni.
Questo celebre episodio è quanto di meglio per
descrivere il calciatore in questione: Ezio Vendrame (Casarsa della Delizia,
21/11/47), il classico esempio di genio (quasi mai veramente manifestato) e
sregolatezza (ampiamente documentata). La partita in questione era
Padova-Cremonese, serie C 1976/77: Vendrame giocava coi bianco-scudati e il suo
gesto fu una ribellione contro la combine tra le due formazioni. Così come
quella volta, sempre coi veneti e nella medesima stagione, che inizialmente
accettò un lauto premio dall'Udinese per giocare male, ma poi, fischiato dai
suoi ex tifosi, decise di non rispettare il patto sfoderando una grande
prestazione condita da due reti (una direttamente da calcio d'angolo,
promettendo ai tifosi il gol prima ancora di calciare). Il Padova vinse e lui
se ne tornò a casa con 44000 lire (premio partita dei veneti), anzichè 7 milioni
(cioè quanto promessogli dai bianco-neri).
Questo era Vendrame: uno con poca
voglia di faticare, che non soffriva il professionismo esasperato del calcio,
innamorato delle donne e dei bagordi, discontinuo e continuamente sballottato
da una squadra all'altra. Ma anche un uomo col rispetto dei veri valori
sportivi e del pubblico che andava a vederlo e che, infatti, lo amava. Finita
la carriera mai completamente amata del calciatore, si dedicò brevemente a
quella di allenatore, prima di mettersi a scrivere e raccontare la sua storia
in alcuni libri (di cui il più famoso resta "Se mi mandi in tribuna,
godo"). Alcuni lo chiamavano il "George Best italiano", altri lo
paragonavano a Mario Kempes. Oggi certamente tutti lo metterebbero accanto a
Balotelli. Niente di tutto questo. E poi il suo idolo era Gianni Rivera, tanto
che quando gli fece un tunnel a San Siro gli chiese scusa per l'umiliazione.
Questo era Ezio Vendrame: uno che i deboli di cuore (parole sue) non dovevano
andare a vedere.
La vittoria di Luca Zaia alle
elezioni regionali di Domenica non si puó certo dire sia stata una
sorpresa per chi ha seguito l'andamento delle campagne elettorali dei
6 candidati. La vittoria ampia del trevigiano e della sua lista
personale sembrano confermare, almeno per la metá della popolazione
veneta votante, la percezione di un'amministrazione ben condotta,
percezione che va al di là delle tradizionali appartenenze
partitiche.
A Carmignano più ancora che in
Veneto l'entusiasmo per Zaia sembra alle stelle: 10 punti in più
delle ultime regionali e quasi 9 in più della media veneta.
Alle sue spalle il deserto, o quasi.
Gli unici a poter far festa sembrano essere i 5 stelle cresciuti di
10 punti rispetto al 2010, ma in realtá l'11% rimane un risultato
interlocutorio che li condanna ancora una volta a rimanere nel limbo
dei "bravi tosi". E stesso identico risultato per l'altro
Tosi, il veronese, che si trova a dover rinunciare sia all'obiettivo
di far perdere l'ex compagno Zaia sia a quello di risultare decisivo in
consiglio regionale.
Ma le vere sconfitte nella sfida
elettorale di domenica sono senza ombra di dubbio le truppe venete
del Partito Democratico e delle liste che hanno sostenuto Alessandra
Moretti, la candidata vicentina che pure partiva con il vento favorevole
delle elezioni europee di solo un anno fa. Allora il PD sembrava aver
sfatato il tabù veneto con un sorprendente 37,5% figlio della
percezione di cambiamento data dai primi mesi di governo Renzi.
Miracolo non ripetuto e probabilmente nemmeno tentato da un PD veneto
che sembra non sentire la responsabilità di essere il solo a poter
garantire un'alternativa al leghismo, sia a quello moderato di Zaia,
sia a quello improbabile di quei sindaci che si accaniscono contro il
Kebab per aumentare la sicurezza delle proprie città.
Gli insegnamenti di papà Italo gli sarebbero tornati utili in
tempo di guerra. Era talmente bravo nel taglio della carne che i compagni di
brigata lo soprannominarono scherzosamente “Boia”, e quello rimase il suo nome
di battaglia. La brigata era quella partigiana numero 31, la Garibaldi Forni,
lui era Algiso Toscani (Salsomaggiore Terme, 13/11/20 – 31/10/10), per gli
amici Giso.
Aveva scelto la
resistenza sull’Appennino parmense Algiso, combattendo nel distaccamento
Peracchi-Lindori. Prima aveva scelto il calcio, malgrado il padre fosse
contrario, vedendolo già dietro il banco della macelleria a proseguire il
mestiere di famiglia. Ma Giso era
testardo e caparbio. Nell’estate del ’36 a Salsomaggiore arriva, per il ritiro
precampionato, il grande Bologna di Felsner, lo “squadrone che tremare il mondo
fa”. Un’occasione più unica che rara per mettersi in mostra. E allora eccolo
dietro la porta, a fare il raccattapalle tutto il santo giorno, sperando di
poter così sfoderare la sua tecnica. La sua costanza e la sua giovanile
sfrontatezza vengono premiate: Felsner si accorge di lui e gli propone un
provino.
Dribblato anche il padre si presenta nel capoluogo petroniano e
ottiene l’ingaggio nelle giovanili. Fa immediatamente scintille: ad un torneo
internazionale conduce i suoi alla vittoria a suon di gol. Un prodigio! Nel
’39, non ancora ventenne, viene fatto debuttare in Coppa Italia, nella partita
contro il Livorno. Giso non si fa
travolgere dall’emozione e si fa un bel regalo di Natale, visto che si giocava
alla Vigilia, il più bello per un attaccante: il gol. Sembra l’inizio di una
fulgida ascesa, invece in prima squadra le porte gli vengono sbarrate dalla
presenza di un mostro sacro quale Hector Puricelli e da un infortunio al
menisco. Fino al prestito al Fidenza. Poi la guerra travolge tutto ed Algiso si
ritrova nuovamente di fronte ad una scelta di vita importante e difficile.
Sceglie la Resistenza, si arruola nella Garibaldi e si incammina su pei monti.
Qui dimostra grande coraggio, spesso non esita a stare in prima linea. Come il
14 luglio 1944, quando una sua bomba a mano mette fuori uso un carro armato
tedesco, dando simbolicamente il via al cosiddetto “Combattimento di Luneto”,
che vide la strenua opposizione dei partigiani della brigata a cui apparteneva Giso ai militi nazisti, spiegati in
grandi forze sull’Appennino parmense per rappresaglia. Cinque dei suoi compagni
periranno in quell’occasione, lui si salverà, ed uscirà indenne dal conflitto. Finita
la guerra riprenderà a giocare: un anno a Parma, due a Pescara, poi nuovamente
nel capoluogo crociato. Col Bologna ha chiuso, i sogni di diventare un grande
calciatore, magari di fama nazionale, sono definitivamente tramontati, ancor
prima del dramma bellico. Ma Algiso è un uomo forte, ancor di più dopo le difficoltà
della vita partigiana. Sa che una delusione non lo può mettere a terra. E poi
c’è l’amore, il ritorno alla sua Salsomaggiore, dove appende gli scarpini al
chiodo, allena, mette su famiglia e frequenta ininterrottamente la locale
sezione ANPI, cercando di mantenere vivo anche nei più giovani il ricordo della
lotta per la libertà. Primi fra tutti i figli, Giancarlo, Paola, Italo, lo
stesso nome del nonno. Curiosamente sarà proprio Italo a seguire le orme del
genitore, ciò che Algiso non aveva fatto nonostante le insistenze paterne,
intraprendendo la carriera calcistica, pure lui per lo più al Parma.
Giso con Francesco Guidolin ai tempi in cui allenava il Parma
Nel 2010,
alla sua morte, lasciò una preziosa eredità. Molto più che calcistica!
La strada, come suggeriva la rima con "trucco" parlava "crucco" ed il particolare è quello della casa diroccata di Via Trento o, come viene perlopiù chiamata, la strada Tedesca.
Complimenti a CHRISTIAN BIASIO che ha individuato il luogo del particolare e che ha preceduto di 30' la risposta altrettanto corretta di Alberto Andeliero.
Dopo qualche tempo torna a farvi compagnia il quiz di
Fuoriluogo. Come da abitudine, prima il
particolare e poi la soluzione. E come da abitudine, partecipa solo chi ci
scrive la soluzione sul nostro blog.
La soluzione Giovedì 7 Maggio.
Occhio che l’indovinello contiene
un indizio in... rima.
Buon divertimento!!
Qui il gioco si complica un pochino
Guardandomi dovrai pensarci più di un attimino
L’edera ormai mi ha quasi sommerso
E dalle mie finestre non passa più luce attraverso
Ore 16.33, 16 luglio 1950, stadio Maracanã, Rio de Janeiro.
La voce di Luis Mendes ripete ossessivamente, per nove volte: «Gol do
Uruguay!». Intorno il silenzio è totale: la folla è sconcertata, si sente solo
qualche risata di festeggiamento dei calciatori uruguaiani. A terra, come un
corpo privo di vita, il portiere del Brasile, la squadra che tutti già
consideravano campione del mondo, la quale invece ora sta perdendo, quando
mancano dieci minuti alla fine. Moacir Barbosa Nascimento ha appena visto
sfilare tra il suo braccio ed il palo la conclusione beffarda di Alcides
Ghiggia. È la rete che di fatto regala la Coppa Rimet all’Uruguay, gettando il
Brasile tutto nella disperazione.
È l’attimo che cambia la vita del primo
portiere nero della Seleção. Barbosa
viene immediatamente considerato il maggior responsabile del Maracanaço, il capro espiatorio da
sacrificare sull’altare della rabbia e della delusione di un popolo intero. Per
non lasciare dubbi i giornali del giorno dopo titolano: «Barbosa, l’uomo che ha
fatto piangere il Brasile». Su di lui se ne dicono tante, troppe: porta
sfortuna, l’ha fatto apposta, un nero in porta non può che combinare danni…
Nessuno dimenticherà mai quell’episodio: ovunque vada, Moacir viene indicato,
evitato, come un appestato od un criminale. Ed è proprio un criminale che si
sente quando afferma: «In Brasile la pena massima per il reato di omicidio è
trent’anni di carcere; sono quasi cinquant’anni che io pago per un crimine che
non ho commesso». Nel 1950 Barbosa aveva ventinove anni, era il titolare di una
delle formazioni più forti del suo paese, il Vasco da Gama, e con la nazionale
si era già aggiudicato il Campeonato
Sudamericano de Football (quella che diventerà poi la Coppa America)
dell’anno prima. Era noto per la sua abilità tra i pali, in particolare quella
di parare i rigori; era felicemente sposato; la sua squadra di club andava a
gonfie vele e lui si apprestava a diventare campione del mondo. Una vita
perfetta insomma. Fino alle 16.33 di quel pomeriggio di luglio.
Da lì in avanti
cinquant’anni di emarginazione, di disprezzo da parte praticamente di tutti.
Continua a giocare nel Vasco, non più per la nazionale; quando si ritira lavora
come custode di una piscina, poi anche l’unica persona che lo amava veramente,
sua moglie, muore. Moacir abbandona Rio de Janeiro e si trasferisce dalla
cognata, vivendo con una misera pensione che ha dovuto supplicare al suo ex
club. Ma le umiliazioni non si fermano qui! Un giorno al supermercato una
signora con un bambino lo riconosce e, mostrandolo al piccolo, gli spiega:
«Quello è l’uomo che ci ha fatto perdere il mondiale». Nel ’93 gli viene il
desiderio di andare a salutare la selezione verde-oro, prima di un match di
qualificazione alla coppa del mondo. Gli impediscono perfino di entrare.
A
nulla vale il suo tentativo scaramantico di liberarsi del fantasma di quella
maledetta partita. Quando tredici anni dopo il mondiale le porte del Maracanã
vengono tolte e sostituite, Barbosa si fa consegnare i pali. La sera invita i
pochi amici rimastigli a cena e prepara un barbecue.
Nessuno sospetta che la legna che brucia sia quella delle porte del famoso
stadio. Una celebre fotografia ritrae il portiere su una di quelle porte, la
rete tra le mani, lo sguardo triste, consapevole della gravità di quanto
successo, che guarda il vuoto, immediatamente dopo il sigillo di Ghiggia. È
l’immagine perfetta della solitudine e dell’abbandono di quell’uomo, costretto
a pagare per cinquant’anni la colpa di un gol subito. Il 7 aprile del 2000
Barbosa si è spento: al suo funerale poche persone, nessun compagno di squadra
e nessun rappresentante delle istituzioni. Alla sua prima morte, alle ore 16.33
del 16 luglio 1950,era presente una
folla di duecentomila persone.
Certo che in America succede proprio di tutto. Per onorare questo
tutto, nel 1996 i Coen decidono, con “Fargo”,
di celebrare l’assoluta insensatezza di alcune scelte umane. Fargo è il nome
del luogo da cui inizia la fine, da cui scaturisce l’inarrestabile effetto
domino che sconvolgerà la vita di tutti i protagonisti. La storia, che inizia
con una richiesta quanto mai strampalata da parte di uno dei personaggi, sembra
a prima vista irreale ed illogica. Quello che Jerry spietatamente chiede a
Gaear e Carl fa scorgere per pochi istanti quanto un uomo possa diventare
perfido e meschino per raggiungere il proprio scopo. L’ America del “self-made”
man viene sbriciolata in pochi attimi. Non tutti riescono a vivere il loro
sogno, non tutti riescono a raggiungerlo grazie ai sacrifici di una vita. C’è
chi decide di prendere la scorciatoia, c’è chi è disposto a rischiare, a
giocare ad una pericolosissima roulette russa pur di arrivare alla
realizzazione di un obbiettivo pur non avendone le capacità. Jerry rappresenta
proprio questo genere di persona.
Il problema è che ad accorgersi
dell’insensatezza dei suoi piani non ci sono gli amici di una vita che tentano
in tutti i modi di farlo ragionare e di farlo desistere da ciò che ha
minuziosamente architettato. Di fronte a lui, al “Kings of Clubs” di Fargo ci
sono Gaer e Carl, due spietati sicari. La loro sorpresa alla richiesta di Jerry
dura solo pochi attimi. Non c’è più tempo per farsi domande, ora bisogna
passare all’azione. Chi è il più matto dei tre? Chi è il più insensato? Chi
propone il piano d’azione o chi accetta la proposta? Ma se Gaear e Carl
iniziano ad agire, Jerry deve soltanto aspettare l’esito degli eventi
ritornando a vivere la vita di tutti i giorni nel concessionario di proprietà
del suocero Wade. La routine di Jerry è fatta di clienti da soddisfare il più
possibile e di tanti rospi da ingoiare facendo finta di nulla. Tuttavia,Jerry non si rende conto che il suo futuro,
per quanto abbondantemente programmato, rimane incontrollabile e sfuggente.
Basta pochissimo per rovinare tutto. Ad ostacolare i suoi propositi, quando
tutto sembra andare per il verso giusto, c’è l’ostinazione del suocero Wade,
lui sì un vero “self-made” man. Wade rappresenta il tipico uomo che nulla o
nessuno possono fermare. Vive nell’agiatezza e niente può scalfire le sue
certezze. Lui e Jeffry non si sopportano proprio per nulla. Il loro è un
rapporto basato sulla pura e semplice formalità ma la sfiducia che Wade prova
nei confronti del genero non è poi così tanto nascosta. Il problema è che l’errore è sempre dietro
l’angolo.
E così, ciò che doveva essere per Gaear e Carl una pura e semplice
formalità, diventa invece un’escalation di sangue e rovina. I due azionano un
processo di causa-effetto da cui non si districheranno mai più. Ogni azione non
si ripercuote solo su di loro ma anche e soprattutto su chi ha a che fare con
loro. Nel loro essere schegge impazzite sono però fedeli al loro ruolo di infallibili
sicari senza scrupoli. La loro crudeltà stride con il carattere di Marge, la
poliziotta che per prima si mette ad indagare queste morti apparentemente
insensate. Marge è molto furba, scaltra nel suo lavoro e molto molto
perspicace. Non si lascia coinvolgere più di tanto dalle circostanze e riesce
sempre a trovare un nesso, un filo logico a ciò che osserva o sente. Vive
tranquillamente in compagnia del marito, è al settimo mese di gravidanza e
tutto rientra in uno stile di vita serenamente indirizzato alla normalità più
assoluta. Grazie ad uno spirito indomito, riesce ad individuare chi si nasconde
dietro ad una storia che diventa per si suoi canoni sempre più cruenta. Ma come
è possibile rimanere incollati allo schermo fino alla fine del film se tutto
ciò che viene presentato è un inno all’illogicità? La risposta ve la darà la
scritta che i Coen hanno voluto intenzionalmente proporre dopo pochi secondi
dall’inizio del film. Una frase che, a detta dei due ideatori, si insinua nella
nostra capacità di vedere e di accettare scene o concetti che altrimenti non
saremo in grado di accettare. Quello che i Coen hanno messo in pellicola non
sono altro che una serie di avvenimenti che, per quanto essi siano strani ed
inclassificabili, sono accaduti realmente. La storia è quindi un’invenzione
basata però su fatti che per quanto confutabili hanno un fondo di verità.
A
fare da contorno a tutto ciò il Minnesota innevato ed il suo inverno glaciale.
Il piano sequenza con il quale inizia il film racchiude in sé il senso di
perdizione dal quale inesorabilmente prenderà il via tutta la storia. Tutto
sembra racchiuso in una gigantesca palla di cristallo, di quelle che si agitano
per ricreare l’effetto neve. Se all’inizio tutto sembra sfuocato ed
impercettibile, le immagini si fanno via via più nitide, più chiare, più
riconoscibili. Come la vera identità di Jerry.
La nuova Ciclabile del Brenta, le bellezze naturalistiche pedemontane, la Primavera alle porte e l'imminente avvio dell'esposizione internazionale di Milano ci invitano a non perdere l'occasione di sviluppare il potenziale turistico di Carmignano di Brenta. Intercettare il grande pubblico di EXPO che arriverà da Est ed entrerà in Italia passando per la porta di Venezia sarà la nostra sfida! Nessuno di loro dovrà arrivare a Milano senza essersi prima fermato in paese.
La redazione di Fuori Luogo ha unito le proprie menti alla ricerca di come poter incuriosire il qualificato pubblico di EXPO ed il risultato dei nostri sforzi è riassunto in queste 5 proposte:
PROPOSTA TURISTICA NUMERO 1: GARA DI DESTREGOLAMENTO BISI
Si tratta di una manifestazione che unisce la tradizione agricola territoriale con la riconosciute abilità degli autoctoni nel destregolamento bisi in cui i carmignanesi sono secondi (per ora) soltanto agli amici di Baone. Per impreziosire e rendere più avvincente la gara si consiglia l'ingaggio di una storica voce dello sport televisivo. Visto che Bruno Pizzul è sotto contratto per i prossimi 10 anni con la Pro Loco di Baone, suggeriamo di scegliere tra gli storici radiocronisti RAI Giulio Delfino e Francesco Repice:
PROPOSTA TURISTICA NUMERO 2: RASSEGNA INTERNAZIONALE DEL CHIOCCOLO
Questa idea intende sviluppare al suo massimo potenziale l'eccellenza dei cacciatori carmignanesi nel chioccolo umano, tecnica di richiamo che fin dall'antichità i cinesi provano inutilmente a copiarci.
A questa rassegna saranno invitati chioccoli da tutto il mondo per ribadire la superiorità dei chioccoli carmignanesi. Qui sotto un esempio di come potrebbe essere:
PROPOSTA TURISTICA NUMERO 3: FESTIVAL DELLA CANZONE RUTTATA
Per svincolarsi da tutto ciò di già sentito nelle numerose rassegne canore estive, proponiamo di dare sfogo all'esuberanza giovanile paesana attraverso questa forma d'arte che incuriosisce molto il pubblico russo. Qui l'idea in salsa veneziana che già da alcuni anni sta sviluppando l'assessorato al Turismo di Pianiga per promuovere la frazione di Cazzago:
PROPOSTA TURISTICA NUMERO 4: GRAN PRIX DI TIRO CON I TRATTORI
Per gli esigenti palati dei turisti kazaki non si può rinunciare ad una manifestazione motoristica. Dopo lunghe riflessioni siamo giunti alla conclusione che nulla meglio del tiro alla fune tra trattori possa essere di richiamo per gli amici ex sovietici, patiti del pneumatico agricolo. Il senso della disciplina a noi è sfuggito ma siamo certi che le grosse buche scavate sotto i cavalli dei veicoli manderanno in estasi questi turisti dal portafoglio a fisarmonica:
PROPOSTA TURISTICA NUMERO 5: COPPA DEL MONDO DI SCHIAFFI
Perchè non esaltare il vigore dei nostri uomini migliori invitando il pubblico asiatico ad un torneo mondiale di schiaffi?
L'idea può apparire, in un primo momento del tutto insensata e ridicola ma rifletteteci un attimo: un miliardo di indiani possono sbagliarsi tutti quanti? Noi crediamo di no!
E allora tagliamoci le unghie e riempiamo le nostre case di Lasonil, il mondo ti aspetta, Carmignano!
Sándor Szűcs (Szolnok, 23/11/21 - Budapest, 04/06/51) era un eccellente
difensore dell'Újpest, e prima ancora della squadra del suo paese natale. Giocò
con grandi campioni, quali Ferenc Szusza e Gyula Zsengellér, e disputò anche
diciannove gare con la nazionale, al fianco di mostri sacri come Ferenc Puskás,
József Bozsik, Ferenc Deák, György Sárosi... tutta gente che dette vita al mito
dell'Aranycsapat. Lui però nella “Squadra d’oro” non poté giocare. Infatti era
stato ammazzato prima, il 4 giugno del '51. In Ungheria il regime comunista
sale al potere nel '49, con tutta la sua crudeltà e le sue profonde ingerenze
in ogni ambito della vita. Non c’è sfera che sfugga al controllo degli organi
del governo di Mátyás Rákosi, il famigerato e spietato segretario del Partito
Comunista Ungherese, uno che aveva inventato la “tattica del salame”, cioè
l’eliminazione “fetta a fetta” degli oppositori. Ad occuparsi
dell’individuazione, della cattura e dell’esecuzione dei dissidenti era l’AVO[1],
la temutissima polizia segreta. Szűcs è famoso e sposato con figli. Quando
inizia una relazione amorosa con la cantante e attrice Elizabeth Kovacs, nota
come Erzsi e pure lei coniugata, la cosa non può sfuggire al regime. E non può
essere che condannata da esso.
Elizabeth Kovacs - Erzsi
Partono le prime minacce che si trasformano ben
presto in imperativo: la relazione deve essere troncata. In caso contrario non
c’è bisogno di spiegare le conseguenze. Szűcs non è disposto a rinunciare alla
sua libertà, alla sua felicità; non può sottomettere i propri sentimenti al
volere dispotico dello stato. Così programma la fuga all'estero, a Torino, dove
spera di trovare un ingaggio presso la locale squadra di calcio granata. Il
piano è quello di attraversare il confine con la Jugoslavia, grazie all’aiuto
dei contrabbandieri. È l’unico modo, visto che le frontiere sono rigidamente
controllate dalla polizia.
Il 6 marzo i due innamorati partono. Sándor porta
con sé una pistola e le ultime, poche speranze di libertà. Vengono arrestati e
subito condotti alla tristemente celebre “Casa del Terrore” dell'AVO.
La "Casa del terrore" dell'AVO, oggi museo.
Dopo mesi
di prigionia e torture arriva la sentenza: condanna a morte per alto tradimento
per lui, quattro anni di prigionia e cinque di astensione dall’attività
pubblica per lei. Il piano del regime era quello di mostrare agli altri
calciatori famosi cosa sarebbe successo loro se avessero tentato di emigrare.
Ed è un piano che funzionò, visto che nessun altro tentò la fuga. La morte di
Szűcs, avvenuta per impiccagione il 4 giugno 1951, venne tenuta nascosta fino
al 1989, anno della caduta del comunismo. La stessa Erzsi, in carcere, non
conobbe la sorte dell’innamorato fino al 1954. Tutti avevano dimenticato quel
difensore della formazione della polizia della capitale. Quando si seppe la sconcertante
verità, tuttavia, Sándor divenne un simbolo di dissidenza e il suo nome, nella
nazione magiara, è ancora tristemente legato a quello dell'unico martire del
calcio.
[1]
L’Államvédelmi Hátósag (letteralmente Autorità
per la Protezione dello Stato, abbreviata a volte in AVH) fu attiva dal
1945 al 1956 e aveva il suo quartier generale a Budapest, al 60 di Andrássy út.
Per la quinta volta dalla sua
nascita, ritorna il quiz che tutta la SPECTRE ci invidia. Siccome “double ou
seven” è alle nostre calcagna, vi anagrammo la soluzione che sembra l’inizio di
un periodo ipotetico… tanto tanto ipotetico.
MERX SCIA E PEDALA E
DUOLE LENTO SE…
Aguzzate la vista, concentratevi e spediteci
la soluzione!!
Come già ribadito in precedenza, il vincitore sarà sol tra
coloro che ci scriveranno direttamente sul blog.
<< Maledetta crisi!
Maledetta disoccupazione giovanile! Quanto mi sarebbe piaciuto aprire una
pasticceria tutta mia, avrei già davanti la fila di famiglie che viene da me a
fare colazione, a fare merenda, a prendersi le paste da aprire la domenica a
pranzo coi nonni a tavola mentre in tv danno la benedizione del Papa…
Avrei finito il liceo senza
infamia ne lode e sarei andato ad imparare l’arte da un pasticcere del centro
come ragazzo di bottega per poi dare sfogo alla mia creatività con un’attività
tutta mia, avrei la fila a quest’ora…
Invece finito il liceo mi è
toccato iscrivermi all’università, chi si sarebbe rischiato di scommettere
sull’avvio di una nuova bottega di questi tempi? almeno se stai studiando
nessuno viene a rinfacciarti di stare a perdere tempo… e poi mia nonna ci tiene
così tanto ad avere un laureato in famiglia!
Ora l’università è messa lì da
parte perché adesso faccio politica, mi occupo del mio territorio. E chi se lo
sarebbe aspettato? un anno fa stavo al bancone della festa rock del paese ed ho
conosciuto l’assessore, in realtà io lo conoscevo già, la sua faccia stava
spesso nella cassetta delle lettere di casa mia. Devo essergli stato simpatico
perché mi ha chiesto come mi chiamavo ed in quattro e quattr’otto avevamo
ricostruito le mie parentele fino al secondo grado. Fino a quella sera non è
che mi fossi mai appassionato alle questioni amministrative però mi stava
simpatico anche se, per questioni anagrafiche, non avevo potuto votare per lui
alle scorse elezioni. Però l’avrei fatto!
Insomma da lì è partita la mia
carriera politica, passata per le elezioni di sei mesi dopo, in cui ho proprio
spaccato, e per l’incarico affidatomi di conseguenza.
Ma chi se lo immaginava? beh
adesso faccio politica già da sei mesi e devo dire che mi viene bene parlare
alla gente, spiegare loro quello che vogliamo fare, rispondere alle domande…
quello un po’ mi inquieta perché ti arriva di tutto agli incontri pubblici eh,
e con sta questione dell’antipolitica è un attimo trovarsi quello che ti accusa
di far parte della casta... a me? che son qua da sei mesi? almeno io con questa
ragione me la sbologno in fretta st’accusa… poi per il resto è facile trovare
qualche spalla tra i miei più esperti compagni di amministrazione.
Si insomma, mi sa che forse ho
trovato la mia strada anche se qui è dura soprattutto quando mi metto a pensare
a come andrà a finire… questa cosa dura qualche anno poi tornano le urne… e lì?
altro che contratto a termine, qui è una lotteria… e se non spacco più? cosa
faccio io? mi rimetto a studiare? sì, e magari aspetto altri 5 anni per
ricominciare a vedere una busta paga…
Vado a lavorare? ma a fare
cosa? cosa mi invento? non ho neanche avuto il tempo di imparare a fare una crema pasticcera decente… mi metto ad impararlo da adulto? mah, la vedo dura… maledetta
crisi!
Mi sa che mi devo tenere
stretto sto ufficio che se lo perdo mi mangio le mani… mi sa che è questo il
mio tesoro, me la devo giocare da furbo! Da domani si inizia a programmare la prossima campagna
elettorale, bisogna piacere alla gente, essere sempre presente su Facebook e quando ci sono i
fotografi, la tv locale, i giornalisti. Magari rivedere l’armadio e il taglio
di capelli, l’immagine è importante, l’ho capito da mia nonna quando mi dice
che con la barba da fare sembro un talebano… me la devo giocare bene con
l’elettorato anziano, mi devo giocare bene la consulenza gratuita della nonna!
Se parto adesso gioco
d’anticipo, e chi mi frega la prossima volta?
Poi
magari arriva qualcosa di più, chissà? uno scatto d’anzianità, un ufficio più
grande di questo, la carriera… a quel punto sarò in ballo e ballerò! Basta che
mi tenga stretto il mio tesoro che se scappa qua va a ramengo tutto, mica posso
imparare a fare il pasticcere a 40 anni o, peggio ancora, a 50… qui mi ci gioco
il futuro, non posso perdere nessun treno altrimenti qua si resta a terra per
davvero… che ansia… maledetta crisi! Maledetta disoccupazione giovanile!
>>.
Sabato mattina. Sono a San Pietro in Gù, in
uno studio di produzione video, circondato da monitor, casse acustiche e
computer.
Silenzio: sto metabolizzando l’emozione che
mi ha suscitato la visione della puntata “ZERO” della web-serie “Onyros”,
prodotta e realizzata dal collettivo INDIVISION.
Il protagonista di "Onyros"
Atmosfere horror?
No,
direi piuttosto “thriller”. Ma con curiosi intrecci amorosi che vedremo nelle
prossime puntate!
Si scherza, si ride, si respira entusiasmo e
voglia di fare. Voglia di fare un film.
Innanzitutto, che cos’è INDIVISION?
Siamo
un “collettivo di film-maker”, composto da una decina di professionisti di
Padova e provincia (alcuni sono di Carmignano - ndr) che provengono dal settore
della produzione video e ad attività lavorative ad esso collegate (fotografi,
grafici, copywriter, truccatrici, sound-designer, creativi...), e che nutrono
una forte passione per il cinema.
A
breve INDIVISION verrà ufficializzata come associazione, perché vorremmo aprire
le porte anche a giovani non-professionisti interessati ed affascinati
dall’arte cinematografica.
Come è nata questa idea del “collettivo”?
C’è
un grande fermento attorno al sogno di fare un film. E c’è una gran voglia di
realizzare un prodotto di alta qualità, seppur con un budget ridotto. Viviamo
in una parte dell’Italia (il Nordest) in cui le produzioni cinematografiche e
le opportunità ad esse collegate sono praticamente inesistenti. Il “collettivo”
nasce come risposta a queste esigenze.
Poi
c’è un’altra considerazione da fare: ciascuno di noi ha capito che da solo,
come singolo freelance, non potrà mai
realizzare appieno le sue idee, né massimizzare le sue capacità. Fare squadra è
un modo per condividere opinioni, conoscenze ed esperienze e per crescere sia
dal punto di vista umano che professionale.
Come vi siete conosciuti?
I
primi contatti nascono nell’ambiente universitario: qualche anno fa, alcuni di
noi hanno fatto un corto intitolato “Crisi”. Poi, dopo un periodo in cui
ciascuno ha seguito la propria strada, abbiamo riallacciato i contatti per realizzare
una serie di video per conto di un grosso cliente. Il nuovo gruppo era composto
anche da persone che non si conoscevano prima, ma si è instaurata subito una
forte sintonia.
Alla
fine dei lavori eravamo molto soddisfatti per i risultati ottenuti, così ci
siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: “Perchè non sfruttare queste
esperienze per fare qualcosa di nostro, qualcosa che ci appartenga fino in
fondo?”
INDIVISION: qual è il significato del nome?
INDIVISION
significa INDIVISIONE cioé unione, ma anche VISIONE INDIPENDENTE. Questo deriva
dall’idea che non vogliamo legarci a “compromessi di mercato” (per esempio fare
un corto che fa ridere per portare a casa più visualizzazioni su Youtube), ma
che facciamo le cose che ci piacciono, cose che vorremmo vedere anche come
spettatori. I progetti che stiamo realizzando non sono finanziati da un
produttore che mette i soldi e quindi ti dice cosa devi (o non devi)
mostrare.
Poi
c’è l’altra faccia della medaglia: non appoggiandoci ad un produttore non disponiamo
di un budget. Abbiamo il nostro tempo, le nostre attrezzature, le nostre idee,
la nostra professionalità e la voglia di trovare, di volta in volta, qualcuno
che possa essere interessato a sponsorizzare il singolo progetto o parte di
esso.
Quando parliamo di produzione ci riferiamo
anche ad un altro aspetto, quello organizzativo, giusto?
Giusto.
La produzione riguarda tutta la parte di pre-organizzazione, organizzazione e
realizzazione del prodotto finito (sia esso un cortometraggio, un documentario,
una web-serie). Quindi ricerca della location, permessi per le riprese,
trasferimenti e catering per la troupe, oggetti di scena, costumi,
trucco, fotografia, logistica, ricerca degli attori,...
La prima produzione INDIVISION: “Onyros”. Il format è quello della web-serie, cosa significa?
Significa
che stiamo scrivendo una serie di episodi (10-12), ciascuno della durata di 5-8
minuti, che verranno diffusi tramite internet. Per tornare al discorso del
budget, prevediamo di produrre autonomamente tre puntate, poi vorremmo trovare
un supporto economico per sostenere le spese delle successive.
Un'immagine dal set di "Onyros"
Ho appena visto la puntata “ZERO”: come è
nata l’idea della storia che volete raccontare?
Volevamo
girare un cortometraggio per Halloween, ma non trovavamo un finale che ci
soddisfacesse. Ad un certo punto è nata un’immagine che però ci soddisfava
troppo, nel senso che meritava di più di un cortometraggio. Così ci siamo
detti: “Perché non proviamo a svilupparla meglio?”. E da questa immagine è nata
una storia che è una riflessione sulla società e sul sistema di comunicazione
che ci circonda e di cui siamo parte.
E quale sarebbe questa immagine?
La
vedrete nelle prossime puntate di “Onyros”...
A chi vi ispirate quando scrivete o quando
girate le riprese?
In
generale, dal nostro punto di vista, quello della regia, ci ispiriamo a figure
come David Lynch e John Carpenter. Poi, nello specifico di “Onyros”, cerchiamo
di integrare le nostre idee con quelle della sceneggiatura, nella quale si può
facilmente riconoscere la raffinatezza e la creatività della parte femminile di
INDIVISION.
Qualche anticipazione sullo sviluppo della
storia?
Ci
sarà un protagonista, affiancato da diverse donne, e ci sono delle “forze
oscure”. Per ora non possiamo aggiungere altro.
Allora chiudiamo come abbiamo aperto, con
un filo di suspance, ma prima vi volevo chiedere: dove avete fatto le riprese?
Anzi no... non ditelo!
Rilanciamo agli attenti lettori di
Fuori Luogo Blog la domanda: secondo voi dove sono state fatte le riprese della puntata
“ZERO” di “Onyros” che potete vedere qui sotto?