martedì 24 settembre 2013

L'EPIDEMIA



di Fabio Marcolongo

Carmignano, 2013: siamo stati contagiati. E le conseguenze sono sotto gli occhi di
tutti. Lʼepidemia è stata causata dal virus H*B-16ʼ61.

Il Professor J.H. nacque nella Pennsylvania occidentale e, verso la metà del secolo
scorso, divenne il più famoso e stimato microbiologo degli Stati Uniti. Le sue ricerche
si basavano sullo studio di virus mutanti che avrebbero potuto aiutare lʼumanità a
progredire per realizzare un mondo migliore.
Un giorno il Professore si innamorò di una sua studentessa, la giovane e bellissima
C.W. I suoi occhi verdi e maliziosi conquistarono lo scienziato e i due si sposarono,
nonostante la differenza di età.
Verso la metà degli anni ʼ70, il promettente microbiologo carmignanese E.S.,
allʼepoca ricercatore univeristario, partì alla volta degli Stati Uniti. Emigrò in un paese
che, si diceva, potesse offrirgli molto di più dellʼItalia per sfruttare il suo talento e
realizzare le sue ambizioni. Ci riuscì: dopo enormi sacrifici, il tenace E.S. diventò
assistente del Professor J.H.
Questʼultimo, nel frattempo, era stato nominato per ricevere il Premio Nobel, grazie
alle sperimentazioni condotte assieme alla moglie. I due scienziati stavano creando
un virus mutante che avrebbe dovuto fare aumentare lʼintelligenza delle persone che
ne venivano infettate: il virus H*B-16ʼ61. La sua efficacia era stata testata sui topi e
su uno scimpanzè che, per ben due volte, aveva battuto a scacchi il Professore.
Ma lʼentusiamo durò poco: nelle 48 ore successive allʼinalazione del virus, le cavie
pretendevano e bevevano litri e litri di birra. Se non la trovavano diventavano violente
e, nellʼarco di poche ore, morivano per arresto cardiaco. A causa di questo grave
problema il progetto venne sospeso senza mai sapere quali fossero gli effetti
sullʼuomo. Inoltre, il Professor J.H. fu accusato di svolgere un lavoro amorale, e
cadde in una profonda depressione.

Nonostante ciò, la bella moglie del Professore, C.W., assieme al carmignanese E.S.,
continuarono gli esperimenti in segreto. Superarono lʼimpasse e perfezionarono la
formula: ora lʼeffetto dellʼaumento dellʼintelligenza su topi e scimpanzè era stabile e la
loro dipendenza dalla birra restava a livelli accettabili. Era giunto il momento del test
sullʼuomo, prima di svelare che la ricerca era stata portata avanti contro la legge.
Quando apprese la notizia, il Professor J.H. si illuminò e decise che avrebbe testato
lʼefficacia del virus H*B-16ʼ61 su se stesso: aveva dedicato una vita a quel lavoro e
voleva essere il solo reponsabile di eventuali drammatiche conseguenze. C.W. si
oppose fino a piangere, ma non riuscì a far cambiare idea allʼostinato marito che da
quel momento non sarebbe mai più stato se stesso.
Il Professor J.H. si risvegliò dopo due giorni sul suo letto. Si alzò e iniziò a
camminare per la casa. E.S. e C.W. lo osservavano: si muoveva come un perfetto
idiota. Sembrava un extraterrestre che esplorava un nuovo mondo, rideva delle sue
stesse deiezioni, faceva pipì nelle pentole della cucina e poi se la rovesciava
addosso divertito. Fu ricoverato in una clinica per malati mentali e non si ebbero più
notizie di lui.

Per qualche motivo gli effetti sullʼuomo erano opposti a quelli registrati sui topi e gli
scimpanzè. In altre parole, chi veniva contagiato dal virus diventava completamente
stupido. La disperazione divenne rabbia: C.W. e E.S. distrussero la formula
modificata del virus H*B-16ʼ61; poi la rabbia divenne desiderio e i due giovani
scienziati, che ormai avevano passato molti giorni e molte notti assieme nel
laboratorio, si innamorarono e andarono a vivere insieme.
Ma la passione durò poco. Pochi mesi dopo, la ex-fidanzata di E.S., nota ballerina di
lap-dance, venne in America per motivi di studio: si era iscritta ad un corso intensivo
per diventare contorsionista e, per risparmiare, supplicò E.S. di ospitarla a casa sua.
Lʼingenuo scienziato accettò anche se C.W. non era dʼaccordo.
Alla ballerina di lap-dance, neo-diplomata contorsionista, bastarono venti giorni per
sedurre e riconquistare il suo ex-fidanzato. I due rientrarono in Italia, a Carmignano.
Avevano deciso di sposarsi.
C.W. che non accettava il fatto di essere stata rifiutata promise di vendicarsì.
Recuperò lʼultima fiala del virus H*B-16ʼ61 che aveva deciso di conservare in un
nascondiglio segreto e raggiunse la casa del suo amato, a Carmignano. Riconobbe
di essere nel posto giusto dallʼodore di pipì di maiali che E.S. le aveva
nostalgicamente descritto tanto spesso dopo aver fatto lʼamore. Quando i due si
trovarono faccia a faccia, lo pregò di rimettersi insieme a lei e di tornare negli Stati
Uniti. E.S. rifiutò così C.W. indossò una maschera anti-gas, liberò nellʼaria il
contenuto della provetta e se ne andò sghignazzando.
E.S. era disperato, impotente e rassegnato: gli abitanti di Carmignano sarebbero
diventati stupidi per colpa sua, per colpa del suo egoismo. Ma fu allora che accadde
qualcosa di miracoloso. I carmiganesi non diventarono stupidi come era accaduto al
Professor J.H. ma, al contrario, divennero più intelligenti! Il virus provocò lʼeffetto per
cui era stato originato, effetto che si rivelò essere stabile nel tempo e tramandato di
generazione in generazione, ai figli e ai nipoti di chi lʼaveva respirato.

Cosa accadde? Il Dottor E.S., oggi mi spiega che lʼaria del nostro paese era
caratterizzata da unʼalta densità di una componente dellʼurina dei maiali che rese
“stabile” la mutazione del virus H*B-16ʼ61. Questo era “lʼingrediente” che mancava al
povero Professor J.H. per raggiungere il suo obiettivo. Va riconosciuta, seppur in
forma lieve e variabile da persona a persona, la persistenza di un effetto collaterale
(del tutto trascurabile, soprattutto se gestisci un bar): lʼalta propensione al consumo
di birra.

lunedì 16 settembre 2013

BICI TENDENTE ALL'INFINITO

di GP F1


Dopo un paio d’anni di pura sedentarietà ciclistica, convinto da un paio di amici ad inforcare nuovamente la mia Bianchi da corsa,  ho trascorso l’estate a comporre quella che è poi diventata una corsa a tappe che attualmente sta ormai giungendo al capolinea visto l’inesorabile e lento avvicinarsi dell’autunno. 
Partito a fine maggio col solo ed unico intento di divertirmi pedalando, non ho poi esitato un’instante ad aumentare progressivamente il chilometraggio e la frequenza delle uscite settimanali. Con il passare delle settimane, la pancia si è sgonfiata, il mio peso si è assestato e le gambe, che prima sembravan arrancare, hanno iniziato a girare e a sopportare con più fluidità lo sforzo a cui le sottoponevo. 
Da questo punto di vista, infatti, la bici è strana ed affascinante al tempo stesso: sei solo alla guida di uno strumento che si ciba della tua fatica, ma sei anche il solo a decidere qual è, in quel preciso momento, il tuo limite massimo. Così, se a maggio Breganze mi sembrava il punto estremo che potevo raggiungere, già a giugno avevo un’opinione completamente diversa. 
Aggiungendo chilometri su chilometri, la mia scala di paragoni si è sempre più ampliata e ciò che prima ritenevo irraggiungibile si è avvicinato sempre di più, diventando così alla  mia portata. 
La bici è lo strumento con il quale capiamo quanto personali e soggettivi siano i concetti di velocità, distanza e durezza del percorso che spessissimo compaiono nei discorsi di chi pratica questo sport. E quasi per esorcizzarla, tra i ciclisti non si parla mai di fatica. Si dà per assodato che una determinata salita è dura, che un determinata discesa è impegnativa, che una determinata strada è più o meno trafficata. Ma non si descrive mai un percorso come faticoso perché il concetto di fatica è un concetto troppo personale e soggettivo. Non esiste un misuratore universale di fatica. E quindi, rovesciando la medaglia, non esiste un limite ad essa.
Abitare a Carmignano, per un appassionato di bici, è una goduria: in una quarantina di minuti si possono raggiungere incantevoli località pedemontane dalle quali si possono attaccare innumerevoli salite alle quali, dalla notte dei tempi, è stato affibiato dagli stessi ciclisti un nomignolo od un soprannome.  
Così se per rompere il ghiaccio in salita “E Venexiane” (Mason, Molvena) sono risultate essere il mio primo test importante,  il “Mostacin” e “la Rosina” sono state le mie prime scalate verso il cielo, “Rubbio da Gomarolo” la mia prima gita fuoriporta per testare la gamba, “Lusiana per Monte Corno” (Calvene)” il mio primo “tappone dolomitico” e “San Luca” (Marostica)  è progressivamente diventata la mia palestra d’allenamento. Più avanzava l’estate più coraggio trovavo per testare nuove rampe e visitare nuove località. Con l’aiuto delle cartine di  www.salite.ch (se digitate San Luca compaiono nove modi diversi per raggiungere la frazione di Marostica!) e la street view di googlemaps mi sono creato nuovi itinerari che mi hanno permesso di conoscere in anticipo e con esattezza ciò che mi aspettava. E per ingannare completamente la fatica, quando la strada cominciava a salire, attaccavo la mia playlist. Così, per strappi corti e violenti ( tipo “la salita del Mago” che collega Molvena a San Luca)  c’era il tormentone di “Blurred Lines” di Robin Thicke (ritmo e vitalità), “Shine on” di Tony T. (anche in montagna pensare a un po’ di mare e onde fa sempre bene) o “Make it Bun Dem” di Skrillex; per i passaggi più panoramici e meno impegnativi sceglievo l’album “Padania” degli Afterhours o il brano “Five Years” di David Bowie. “Govinda” dei Kula Shaker lo utilizzavo per le tirate in pianura mentre l’album che più utilizzavo per avvicinarmi alla meta è dei “The Nationals” e si chiama “High Violet”.
A metà agosto ho accettato la sfida che silenziosamente dall’orizzonte mi lanciava quel gigante imponente del Monte Grappa. La salita da Romano d’Ezzelino, anche se molto lunga (28 km) è la più “regolare” e panoramica. 
E’ stata la mia ultima uscita lunga e per me ha rappresentato la chiusura di un cerchio: era da molto tempo, infatti, che mi ero prefissato di raggiungere il Rifugio Bassano ed il vicino monumento ai caduti del Grappa. E’ una montagna amata ed odiata al tempo stesso perché la strada è lunga, il tempo può cambiare velocemente e non ci sono tanti punti di ristoro (zero fontanelle lungo la strada). Lungo i primi tornanti, dopo aver selezionato come sottofondo musicale l’album “Sullo Zero” di Giulio Estremo Casale, mi sono affiancato ad un ciclista che la stava affrontando per la sesta volta nella sua vita. Praticamente un GPS umano che conosceva a memoria ogni tratto dell’ascesa. Ci ho messo circa due ore a completarla e non vi nascondo che gli ultimi dieci chilometri sono i più lunghi ed infiniti. 
E per ritornare al discorso della soggettività della fatica fatto in precedenza vi racconto un aneddoto capitatomi proprio lungo gli ultimi chilometri con il quale concludo questo mio intervento: sono a tre chilometri dalla cima, “Are you Experienced” di Jimy Hendirix ha sostituito la voce poetica di Casale. Nelle orecchie la distorsione della chitarra, nelle gambe l’incombente necessità di raggiungere la meta. Mi gusto il panorama per distrarre la cavalcante sensazione di fatica. Guardo a destra e mi affianca un ciclista che secondo me è frutto della mia stessa immaginazione: la sua bici è completamente priva della forcella anteriore. Gli domando se lui è reale, lui ride, io scuoto la testa, lui ride e mi da appuntamento al Rifugio. Si sta facendo il Grappa in equilibrio sulla sola ruota posteriore. Penso a quel brano di Marracash, rido e mentalmente storpio le parole di quel verso che per me diventa “ A fare le penne davanti al Rifugio Bassano ed il Rifugio Bassano muto!!..”. 
La fatica si attenua, vedo il rifugio, arrivo e parcheggio. 

lunedì 9 settembre 2013

CARMIGNANESI: UN APPROCCIO GEOGRAFICO

di Beniamino Fortunato


Se ogni giorno, anche quello col cielo più terso, il tuo orizzonte si trova a fare i conti con colline e montagne che ne limitano la profondità per una buona metà, lasciando che solo Sud ed Est si aprano a possibili sguardi immaginari,
Se i tuoi lunghi inverni si accompagnano a giornate in cui le nebbie consentono al tuo sguardo di aprirsi al massimo fino al giardino del vicino,
Se le circostanze ti portano a vivere nel paese in cui vige l’estate più lunga di tutta la Regione ma senza il mare e senza una spiaggia dove poterti ristorare,
Se abitare a metà di due province non è mai diventata per te un’opportunità, rischiando di diventare invece il pretesto per sentirti più isolato,
Se i tuoi amici delle superiori si ricordano del posto in cui vivi soltanto per gli stimoli olfattivi avvertiti quella volta che sono venuti a trovarti per preparare la ricerca di Scienze,
Se l’orizzontalità ossessiva del tuo mondo ti costringe a guardare tutti negli occhi non considerando l’eventualità che alcune persone è più giusto guardarle dal basso verso l’alto o, al contrario, dall’alto in basso…


Queste poche righe vogliono essere un attestato di merito per te, che hai avuto il coraggio di pensare, ogni giorno, al modo per rendere più ricco il posto che ti ospita,
Per te che attraverso l’immaginazione e la creatività hai sparso sfumature dove sembrava che tutto dovesse essere di un colore fin troppo definito,
Per te che hai preso, la penna, la chitarra, uno scalpello, un pennello o solo la tua voce e ti sei inventato cento modi di espressione, mille occasioni di incontro e innumerevoli tentativi di rendere più bello ciò che hai attorno.  

martedì 3 settembre 2013

TUTTO UN ALTRO CALCIO: GYLMAR DOS SANTOS NEVES

di Roberto Pivato

Nobilitare il ruolo di portiere al pari di tutti gli altri, in una nazione in cui il calcio è fantasia, dribbling, samba, è un’impresa tutt’altro che facile. Questa impresa riuscì a Gylmar dos Santos Neves, da tutti conosciuto semplicemente come Gilmar (unione dei nomi del padre e della madre, rispettivamente: Gilberto e Maria), il più famoso e più forte portiere carioca di tutti i tempi. 
Nato a Santos il 22 agosto 1930, questa icona del calcio verde-oro si è spenta pochi giorni fa, all’età di 83 anni, dopo una carriera costellata di successi. Gilmar è stato l’unico estremo difensore della storia ad aggiudicarsi per due volte il titolo di campione del mondo (Svezia 1958 e Cile 1962) oltre a numerosi titoli in patria col Santos di un certo Pelè: due campionati, due coppe Intecontinentali e due Libertadores. 

Pelè piange sulla spalla di Gilmar

E proprio a Pelè è legata l’immagine forse più emblematica di Gilmar: il giovanissimo attaccante piange di gioia sulla spalla del portiere subito dopo aver battuto la Svezia nella finale mondiale. Un’istantanea che racconta molto di quello che era Gilmar per i suoi compagni di squadra: prima di quella stessa gara i brasiliani erano in preda al terrore scaramantico dato che sarebbero dovuti scendere in campo con una maglia blu, diversa dalla gialla utilizzata con successo fino a quel momento. 

Il Brasile in blu con la Coppa Rimet 1958

Il portiere dovette cercarsi una casacca di colore differente, poiché solitamente era lui che vestiva di blu. Quando la trovò l’unico numero disponibile era il 3 e non il 13 col quale era solito giocare. Circostanza questa dovuta al fatto che il comitato organizzatore, il quale attribuiva i numeri di maglia, non conoscendo i giocatori sudamericani assegnò loro le casacche casualmente. I compagni gli assicurarono che se non avesse indossato il 13 la finale sarebbe andata male; così Gilmar tagliò da un’altra maglia un 1 e lo cucì a fianco del 3. La partita terminò 5-2 per il Brasile che si aggiudicò la prima coppa del mondo (all’epoca chiamata ancora Rimet). 
In quella stessa edizione Gilmar non subì reti fino alla semifinale (5-2 alla Francia), stabilendo il record di imbattibilità in partite internazionali: ben 17 consecutive. Si dice anche che sia stato lui ad introdurre in patria l’uso dei calzoncini corti per i portieri, poiché rendevano più elastici i movimenti… ed erano più estetici nelle riprese televisive. Gilmar, assieme ad una squadra tra le più forti di tutti i tempi, fece dimenticare ad un paese intero il “dramma” sportivo del Maracanazo, cioè la sconfitta nel mondiale del ’50 a Rio de Janeiro contro l’Uruguay che costò il titolo ai verde-oro, già convinti di averlo in tasca. In quell’occasione il numero uno di casa, Moacyr Barbosa, aveva contribuito alla sconfitta coi suoi errori, alimentando in questo modo il discredito del popolo brasiliano nei confronti del ruolo di estremo difensore. Ci pensò Gilmar a far sì che i ragazzini iniziassero a sognare non più soltanto di fare gol, ma anche di impedire agli altri di realizzarli. 
Un numero 13 che è rimasto ad oggi il miglior numero uno del Brasile.

Una spettacolare parata di Gilmar