mercoledì 3 novembre 2010

AUTUNNO: L'ATTIVITA' FISICA DEI CARMIGNANESI



Verso la fine dellʼestate una vocina rimbomba nella nostra testa: “Ahh... è
finita lʼestate! Inizia venir buio presto... Uff... arriva il freddo... Nooo... che
scatole, si riparte con il solito tran-tran lavorativo... Quanto manca al primo
di novembre? E allʼutimo dellʼanno?”.
Chi dà troppo peso a queste voci finisce in terapia ma, purtroppo per i
milioni di psicologi disoccupati, la maggior parte delle persone, supera il
problema ricorrendo alla tattica della distrazione, che consiste nel trovare
unʼattività sportiva a cui dedicarsi con tutta lʼanima e il corpo, fino a
sfiorare il fanatismo.
Questo accade anche al/allla carmignanese. Qui di seguito riporto quattro
“figure”, viste nel nostro paese, che svolgono unʼattività sportiva
individuale, in modo amatoriale (ma con ambizione).

IL MARATONETA. Assiduo ascoltatore di Radio DeeJay, segue e sogna le
avventure sportive di Linus e Aldo Rock. Vorrebbe partecipare alla
maratona di New York anche se questʼanno (come i tre anni precedenti),
ha iniziato troppo tardi lʼallenamento. Egli compare sempre in una sera di
fine settembre, quando il sole, oramai tramontato, lascia il posto a quel
frescolino dal sapore autunnale che invita noi comuni mortali ad indossare
la giacca. Ma il nostro “Iron-Man” non teme il freddo, anzi lo sfida con:
pantaloncino corto blu, un poʼ anni ʼ80, con classica riga bianca ai lati;
calzino in spugna bianco, alto fino al ginocchio; scarpe Ribok (non è un
errore di battitura, si chiamano proprio così!) da “running” comprate in
offerta al mercato di Camisano; magliettina bianca traforata e pettorina
catarifrangente gialla; fascetta antisudore in spugna rossa, attorno alla
fronte, con polsiera abbinata sul braccio destro; cronometro da polso al
braccio sinistro; catenina dʼoro fuori dalla maglietta che sobbalza ad ogni
falcata scandendo il ritmo della corsa; cuffietta per iPod alle orecchie. Il
maratoneta parte con una falcata degna di Mennea anche se, in fondo alla
strada, rallenta vistosamente, saltella su una gamba per 3-4 metri e poi si
ferma per fare stretching: dannati crampi! Due giorni dopo sarà dal dottore
per uno strappo muscolare ed un fastidioso raffreddore.

IL PALESTRATO. Scende dalla sua Smart Roadster con plateale ardore.
Eʼ molto alto, circa 1 metro e 90, ed indossa: scarpa da ginnastica Ribok
(ultimamente vanno molto di moda); pantalone della tuta stretto sulle
caviglie; maglietta maniche lunghe che resta leggermente sollevata
allʼaltezza dellʼombelico a causa della dimensione abnorme dei pettorali;
cappellino da rapper fosforescente con la scritta di una una nota azienda
di autotrasporti di Carmignano.
Il palestrato si nota sempre per la classica “postura del palestrato”: mento
rivolto verso il cielo, mascelle serrate sguardo fisso e minaccioso; spalle
indietro e petto in fuori, braccia sospese nel vuoto e un poʼ incurvate con i
gomiti verso lʼesterno e le mani che restano distanti 15 centimetri dalle
coscie; gambe dritte e natiche strette strette, come se stessero impedendo
a qualcosa di uscire.
Il gigante mi passa accanto e, ad ogni passo, le pesanti braccia oscillano
avanti e indietro. La camminata ricorda Frankenstein di “Frankenstein
junior”. Ho paura. Abbasso lo sguardo. Lui mi saluta con la voce tipo
quella di Mario Giordano, lʼex-direttore di Studio Aperto.

LA PALESTRATA. Arriva immediatamente dopo il palestrato e lo chiama
“Amoreee!”. Lei parla con lo stesso timbro vocale di Rosa Russo Iervolino.
Che coppia! Salta giù da un Q7 bianco e raggiunge il suo uomo. Non è più
alta di un metro e 55. Che coppia!
La palestrata indossa una tutina in ciniglia rosa e viola, tutta bella
aderente che esalta le sue forme; ha gli occhi azzurri, i capelli raccolti e
tinti di “biondo Marilyn”. Le sopracciglia sono nere. Anche le unghie sono
nere (probabilmente abbinate alle sopracciglia), finte e lunghe circa 3
centimetri. Appena raggiunto il suo ragazzo nizia a parlare male delle due
nuove ragazze della palestra.

LE DUE AMICHE “DA QUESTʼANNO PALESTRA O MI BUTTO DALLA
FINESTRA”. Due amiche molto carine, simpatiche, di compagnia, ma con
qualche chilo in più. Decidono di iscriversi in palestra per prepararsi
fisicamente ad affrontare la tragica “prova costume”, in vista della
prossima estate. Fanno lʼabbonamento annuale, così, dicono, “siamo
sicure che ci veniamo con continuità da settembre fino a giugno!”.
Si lanciano in ogni sorta di attività aerobica purché richieda immensa
fatica, convinte di velocizzare gli effetti dellʼallenamento: spinning, cyclette,
tapis-roulant, ecc... Per strada si possono distinguere perché zoppicano
vistosamente e ridono vantandosi del fatto di aver la “carne greva” grazie
ad “unʼassidua attività fisica”.
Un sabato sera di fine novembre si ritroveranno in un pub a chicchierare
del più e del meno, e, davanti ad una birra e ad una porzione di patatine
fritte, stupite e scosse, si domanderanno come sia finita nei loro portafogli
quella tessera con su scritto P-A-L-E-S-T-R-A.

DAL FIUME AL MARE




L’Africa di Francesco

Francesco Baldo è un carmignanese doc che dal ’95 vive e lavora in Africa dove segue progetti di sviluppo umanitario in Somalia. Molti lo ricorderanno come figlio di Ilario, edicolante storico della piazza del paese. Approfittando del suo periodo di vacanza trascorso a casa abbiamo preso al volo l’opportunità di aggiornarci sulle sue interessanti vicende che sono un po’ anche quelle del paese dove lavora.

Ci racconti del tuo percorso professionale Francesco?
Iniziai fin da ventenne ad appassionarmi al sud del mondo anche se all’epoca mi affascinava di più l’America Latina per gli sviluppi soprattutto politici di quel che accadeva lì, mai avrei pensato di finire in Africa in quel periodo! Il sentiero che mi avrebbe portato dove sono adesso iniziò con alcune missioni umanitarie che, da volontario mi portarono in alcune martoriate zone della ex-Yugoslavia nei primi anni ’90. Una mia compagna di missione venne poi messa sotto contratto dal CEFA, una Onlus di Bologna che segue progetti anche in Africa, e da lì iniziò a svolgere il suo lavoro di Infermiera in Kenya.
Presi l’occasione per trascorrere da lei qualche settimana di vacanza e lì mi arrivò la proposta di iniziare a collaborare ai loro progetti. Detto e fatto dal ’95 al 2005 ho lavorato per il CEFA, dapprima come logista: dovevo occuparmi di acquistare i medicinali al prezzo migliore della piazza (l’esperienza da “bottegaro” qui mi aiutò parecchio) per poi prendermi cura di spedirli nel posto giusto e nel giusto stato di conservazione affinchè altri miei colleghi avessero potuto distribuirli a persone ed animali. Dopo qualche tempo diventai amministratore e iniziai ad occuparmi della rendicontazione per i finanziatori dello stato di avanzamento dei progetti. Infine divenni coordinatore di progetti fino al 2005, anno in cui venni assunto dalla FAO (Food and Agricolture Organization), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei casi di sicurezza alimentare.
E qui veniamo ai progetti che stai seguendo in questo momento…
Esatto! Il compito della FAO, in maniera più sintetica possibile, è agire in maniera che ogni abitante della terra possa disporre di almeno 2100 chilocalorie al giorno. Dato sintetico ma troppo semplificativo. Diciamo meglio che la FAO persegue la sicurezza alimentare nel mondo, che vuol dire agire in maniera che ogni persona nel mondo possa disporre ogni giorno della quantità e del genere di cibo di cui ha bisogno.
Obiettivo ambizioso! 
Si, ma oltre al cibo è importante ricordare che l’acqua potabile ha un valore importantissimo poichè con l’acqua non sana diventa difficile ritenere gli alimenti, per cui andrebbe sacrificato l’obiettivo finale.
Andiamo più nello specifico del tuo ruolo…
Io vivo in Kenya, a Nairobi, ma lavoro in Somalia. Per arrivare dove lavoro l’unico mezzo è l’aereo. E ciò da bene la dimensione delle difficoltà logistiche di un paese come la Somalia, in guerra ininterrottamente dal ’91, in cui il Sud del paese è completamente in mano a forze musulmane radicali che impediscono allo stato di essere presente ed allo stesso modo escludono anche noi delle Nazioni Unite da qualsiasi possibilità di lavorare. In Somalia la FAO agisce in modo da accrescere la capacità di pastori, agricoltori e pescatori locali di resistere ad eventuali shock imprevisti che potrebbero ridurli ad uno stato di emergenza umanitaria. Per shock intendo calamità naturali come alluvioni o siccità, oppure a virus che uccidano i loro animali o le loro colture o anche conseguenze dei combattimenti tra militari che possono impedire gli spostamenti all’interno dei territori. In più progettiamo miglioramenti delle infrastrutture che facciamo poi realizzare a loro pagandoli in maniera da rinforzare la loro capacità di cavarsela anche a fronte di imprevisti inattesi.
Quali sono le difficoltà che incontri più spesso facendo tutto questo?
Le difficoltà sono le più impensabili! Ho speso un sacco di tempo per dare un valore monetario ad un metro cubo di terra spostata dai lavoratori a cui facciamo realizzare le opere idriche: la difficoltà risiedeva nel trovare un prezzo che non fosse né troppo alto, in maniera da scoraggiare i ricchi del posto ad inserire i loro protetti come operai, ne troppo basso, per garantire la giusta retribuzione a chi ne aveva veramente bisogno.
Un altro problema che ho dovuto affrontare è stato quello di trovare un metodo di pagamento dei lavoratori che scongiurasse il rischio del caporalato, cioè il rischio di creare delle figure che potevano ricattare i lavoratori nel momento del pagamento settimanale attraverso la possibilità di farli o meno lavorare la settimana successiva. Abbiamo superato il problema affidando i pagamenti al sistema bancario informale che, a fronte di una commissione molto bassa, consente di fare arrivare soldi a qualsiasi somalo nel mondo solo trasmettendone nome, cognome, indirizzo e numero di cellulare; un sistema basato essenzialmente sulla fiducia che da anni funziona benissimo in tutto il mondo e che ha avuto una piccola crisi soltanto dopo l’11 Settembre a causa della non rintracciabilità degli spostamenti del denaro che gli Stati Uniti vedevano come una minaccia alla loro sicurezza.
La Somalia è cambiata dal 95 ad oggi?
Quando io sono arrivato lì la crisi era già in corso e la guerra ormai dura da quasi vent’anni. Ora, il problema di una crisi protratta così a lungo sta nella possibilità che venga dimenticata a favore di crisi più importanti che distolgono l’attenzione internazionale. In generale, al Sud del paese c’è un senso di peggioramento della situazione, mentre al Nord-Ovest è in atto un processo politico molto interessante: ci sono state da poco delle elezioni democratiche. Chi ha perso ha lasciato il potere senza problemi e chi ha vinto si sta dimostrando la classe politica più tecnicamente competente mai vista nel paese. Posso dirlo con sicurezza perché mi trovo spesso a sviluppare i nostri progetti assieme ai ministri competenti per agricoltura, pastorizia e pesca.
E dal tuo punto di vista da “africano” come hai visto cambiare l’Italia negli ultimi 15 anni?     
Vedo una grandissima difficoltà della gente a ricordare anche ciò che è successo ieri. C’è il grosso rischio che non esista più memoria storica in Italia. Credo che ciò sia dovuto all’invasività che ha, in ogni famiglia, quell’elettrodomestico chiamato televisione che, per sopravvivere, ha bisogno di continuare a creare informazioni mirate a far dimenticare ciò che è successo ieri.
E di Carmignano cosa dici?
Faccio molta fatica a parlarne visto che ci vengo veramente poco. Vivendo in piazza però mi accorgo con facilità di come non ci siano più le file di biciclette che alle 18, ogni sera, tornavano a casa dalle camicerie o dalla Cartiera e che vedevo passare quotidianamente quando abitavo qui. Anche i parcheggi delle grandi aziende li ritrovo ogni volta più vuoti di macchine. Penso sia una differenza importante.
Vuoi lasciarci qualcosa prima di ripartire?
Un messaggio di cui voglio farmi testimone: il mio lavoro mi mette a contatto con l’inizio di quel percorso chiamato emigrazione che voi potete vedere solo nella sua parte conclusiva. Vedo in quanti partono, vedo i deserti che devono affrontare per mesi, i rischi che corrono per arrivare in Europa attraverso viaggi che durano spesso anni. Considerate le motivazioni che spingono queste persone a partire ed affrontare rischi pazzeschi. La maggior parte di quelli che partono non arriveranno mai. Non voglio fare del buonismo ma mi piacerebbe che questa energia motivazionale che li spinge fino a noi sapessimo utilizzarla meglio come sistema paese, meglio di come si sta facendo adesso. 

L'EDITORIALE


E con questo siamo ad un anno. Un anno di Fuori Luogo corso via veloce tra gli entusiasmi neo-adolescenziali del primo numero, con l’emozione delle prime consegne casa per casa e l’attesa delle reazioni di un paese che, per quanto ricco e amato, temevamo si rivelasse pigro a reagire di fronte alla nostra proposta.
Poi via col secondo numero e tutti gli altri con sempre più la certezza di lavorare ad un’idea brillante ed apprezzata. L’attenzione che si è spostata progressivamente dall’esterno verso l’interno a ricercare in redazione di affinare l’arte, per mostrarsi attenti anche alla forma oltre che ai contenuti ed essere sempre più visibili, soprattutto per rimanere utili nel rispondere ai bisogni che di volta in volta riuscivamo a rilevare nei lettori.
E’ stato un percorso intrapreso non da giornalisti ma da una piccola redazione di appassionati volontari che, col tempo, ha provato a capire come guardare da giornalisti cercando di cambiare i propri occhi, alzando il proprio punto di vista sempre più fino a sperimentarne uno nuovo, oggettivo, non imparziale perché l’imparzialità appartiene all’indifferenza, ma di certo interessato ed attento verso un territorio a cui vogliamo così bene da essere sfacciati nel rivelarne le brutture e le contraddizioni oltreché i suoi tanti tesori.
E così è stato come smontarlo un po’ questo paese, liberarsi man mano dei legami superficiali per arrivare all’essenza e riuscire a descrivere ciò che c’è di veramente bello e ciò che rimane di proprio brutto.
Su tutto due cose: gli entusiasmi e le distinzioni.
I primi sono il carburante di un motore sociale che fermenta, scoppietta gioiosamente alimentando le rincorse agli scopi delle proprie esistenze; le seconde ne costituiscono il limite, le barriere artificiali che minano il perseguimento di questi obiettivi vitali.
Se gli entusiasmi si alimentano e riproducono all’interno dei gruppi, le sempre più frequenti distinzioni sembrano essere soltanto la scusa per creare barriere divisorie, utili soltanto a scaricare responsabilità in caso di insuccesso e riempire frustranti mancanze di risultati.
E’ un paese che fa ogni giorno un po’ più fatica ad aprire le finestre al mattino per godere di ciò che riuscirà a vedere fuori, è un paese che non conosce più il proprio vicino di casa ma conosce benissimo ciò che accade nel mondo attraverso il proprio televisore. Le tradizioni si trasformano da collante di una comunità a pretesto per distinguersi da chi ne possiede di differenti.
Carmignano non è un punto nero, siamo inseriti in un momento difficile della storia in una nazione che fatica a trovare la propria attuale identità all’interno di questo labirinto di modernità e, non dimentichiamoci, questo è solo il punto di vista non imparziale di chi scrive questo giornale oppure, vedetela come vi pare, può semplicemente diventare il pretesto per dimostrarsi differenti da come possiamo sembrare.

mercoledì 1 settembre 2010

CARMIGNANO DAL BAR


Il bar è un punto di osservazione privilegiato della società in cui viviamo.
Ecco, qui di seguito, alcune figure tipiche della Carmignano del XXI
secolo*:

LʼARRICCHITO. Arriva con il SUV e lo parcheggia in qualsiasi posto,
purchè sia in vista. Meglio se riesce a salire sul marciapiedi o su unʼaiuola
con almeno un paio di ruote. Scende parlando al cellulare che poi, una
volta appoggiato sul bancone del bar, si scoprirà essere spento. Indossa
una camicia a righe macchiata di sugo, un paio di pantaloni lunghi color
cachi e un paio di scarpe Geox sporche di fango. Scherza con la barista
usando un linguaggio piuttosto colorito e si vanta delle sue imprese
amorose: riferisce, in particolare, qualcosa a proposito di una
contorsionista rumena che lavora per il “Circo Americano”. Infine,
raccomanda ai presenti di non raccontarlo in giro poiché la moglie non ne
sa nulla. Ordina un caffè corretto prugna, sfoglia il giornale e se ne va con
la camminata tipica del cow-boy.
LA MOGLIE DELLʼARRICCHITO. Arriva al bar verso metà mattina, per
non incontrare il marito. Parcheggia la BMW coupé strisciando lentamente
ma inesorabilmente gomma e cerchio in lega contro il marciapiedi o contro
il cordolo dellʼaiuola. Fresca di parrucchiera e un pò arrossata dalla
lampada abbronzante, si atteggia in una camminata da fotomodella
(nonostante i suoi quarantʼanni), ancheggiando nella migliore tradizione
delle passerelle milanesi. Si siede con eleganza ad un tavolino, appoggia
la borsa Louis Vuitton sulla sedia accanto, si toglie gli occhialoni D&G,
inizia a sfogliare Vanity Fair e ordina cappuccio e cornetto. Di lì a poco
arriva un giovane alto e muscoloso che si presenterà come il personaltrainer
contattato su internet. Dopo circa 15 minuti i due salgono sulla
coupé e se ne vanno. Interessante il dialogo tra la moglie dellʼarricchito e
la sua amica barista: la prima chiede alla seconda di non dire nulla al
marito, poiché egli considera i personal-trainer dei giovani sfaticati, ed è
stanco di trovarsene a casa ogni settimana uno di nuovo!
IL COMUNISTA DI PRINCIPIO. Arriva e parcheggia la Renault 4 rossa al
posto della coupé appena partita. Scendendo impreca contro le mogli
snob dei capitalisti e si lamenta di Berlusconi e del mondo materialista. Poi
dice qualcosa relativamente ai suoi diritti di lavoratore schiavo del padrone
sfruttatore. Un giovane cliente del bar lo guarda, sorride e gli dà ragione. Il
comunista di principio sfoglia lʼUnità e ordina un caffè di orzo e un
bicchierino di vodka Keglevich (la migliore). Poi lega le Nike che si erano
slacciate, manda un messaggino con lʼiPhone, si reinfila i Ray-Ban, paga
il conto tentando di negoziare il prezzo al ribasso (sostiene sia un suo
diritto, contro le multinazionali del caffè) ed uscendo si accende una Philip
Morris. Lo aiuto ad andarsene, spingendo la Renault 4 che non ne vuole
sapere di rimettersi in moto.
IL DIPENDENTE STATALE. Arriva a piedi, con due colleghi. Al cellulare
spiega che rientrerà in ufficio nellʼarco di 45 minuti, perchè si trova in
archivio per sistemare una pratica urgente. Lʼallegra e spensierata
compagnia ordina due caffè macchiati e uno liscio discutendo
animatamente di vacanze low-cost e di spacci di vestiti di marca.
IL PRECARIO. Lʼho notato prima, mentre sorrideva e approvava i discorsi
del comunista di principio: giovane, sui trentʼanni, laureato in Scienze della
Comunicazione e con un contratto a progetto appena rinnovato per altri
sei mesi. Festeggia da solo, perchè i suoi amici sono tutti a lavorare. Nel
frattempo ha fatto amicizia con lo sgabello alla sua destra. Forse è
ubriaco. Anche il ragazzo forse è ubriaco, ma riesce a farsi offrire una
birra da mezzo (lʼennesima) dalla barista, in cambio della promessa che
sarà lʼultima. Sfoglia la rivista Quattroruote e dice allo sgabello che sogna
di comprarsi unʼAudi A4. Lo sgabello gli consiglia di ordinare due amari e
di brindare insieme nella speranza di un futuro migliore.
Passano le ore e passano anche altre figure: studenti, ragazzi e ragazze,
fidanzati dʼogni età, pensionati, esperti di politica e di calcio,... Ma ho finito
lo spazio a mia disposizione e quindi non mi resta che rinviarvi al prossimo
numero per continuare il viaggio in questo nostro splendido mondo
surreale.

DAL FIUME AL MARE




Tocca a Fabio raccontarci la sua frenetica vita tra metropoli e fornelli


Fabio Liguori (per gli amici Bibo) non è proprio un carmignanese (la sua famiglia vive a Grantorto) ma dalla sua adolescenza ha sempre frequentato il nostro paese e molti dei suoi amici vivono qui. Per questo abbiamo voluto intervistarlo per raccontarvi la sua affascinante scelta di vita.
Fabio, puoi presentarti ai lettori che non ti conoscono? Dunque, ho 31 anni e faccio il cuoco. Ho frequentato l’istituto alberghiero e successivamente, a 23 anni, sono andato quasi allo sbaraglio ad imparare il mestiere a Londra per un anno e mezzo. Poi ho lavorato nell’ordine ad Amalfi, Asolo, Bruxelles, Castelfranco, Miami per arrivare oggi a Parigi dove sto ormai da più di un anno e mezzo.
Cosa ci dici di tutti questi posti? Di ogni posto dove sono stato vi potrei parlare di mille ricordi ma mi rendo conto che la descrizione che farei sarebbe troppo legata all’umore ed all’esperienza personali che avevo nel periodo preciso in cui ci sono stato. Se Londra l’ho vissuta con gli occhi spaesati di un giovane ventenne che per la prima volta nella sua vita lascia casa e famiglia per andare a vivere in una metropoli dove dovrà imparare anche solo a strirarsi i pantaloni, oggi a Parigi vi racconterei di un posto visto con gli occhi di una persona adulta che sta lì soprattutto perché ha trovato una buona occasione lavorativa che gli consente di fare esperienza e migliorare il proprio curriculum. A parte questo ogni giorno mi rendo conto di quanto sia bella questa città!
Da dove ha origine questo perpetuo girovagare? Mi sposto perché ho l’opportunità di farlo ed ho ancora tanta voglia di vedere il mondo. Inoltre ogni cambio porta con se un miglioramento della mia condizione lavorativa a partire dall’esperienza maturata di volta in volta: se a Londra pulivo l’insalata, ora, a Parigi la ordino al fruttivendolo e sovrintendo a chi la dovrà pulire.
Sai già quale sarà la tua prossima tappa? No, non lo so. Ma mi basterà deciderlo e trovare una proposta di lavoro allettante e non ci vorrà molto per cambiare ancora. La Spagna ancora mi manca, qualche impiego a Barcellona o Madrid potrebbero stuzzicarmi anche se lì la paga non è molto buona e la vita invece costa. Un altro desiderio che ho è quello di buttarmi in qualche paese emergente come Marocco, Turchia o Libano, paesi in cui è più facile trovare voglia di investire economicamente nel settore da parte di facoltosi stranieri.
Questo stile di vita ti ha arricchito? Economicamente no, soprattutto perché vivendo senza nessuno che ti faccia ragionare sul futuro sperpero parecchio e non mi pongo progetti a lungo termine. Come persona, invece, a 31 anni ho visto così tanti luoghi che pochi riescono a vedere in una vita e grazie a questo ho messo via molta esperienza. Mi ritengo privilegiato grazie alle scelte che ho fatto.
Ti ha invece tolto qualcosa? Non ho costruito legami duraturi con le persone incontrate. Vivo una vita piuttosto libertina anche perché coi miei orari di lavoro è molto difficile incontrare assiduamente persone che fanno altri lavori; se invece incontri ragazze che fanno il tuo stesso lavoro, molto probabilmente possiedono anche la tua stessa indole libertina… In ogni caso io per primo posso dire di non cercarli questi legami duraturi.
Dalla tua posizione come hai visto cambiare in dieci anni i tuoi amici del paese? Ho visto che le responsabilità li portano molto spesso a pensare di più a farsi una vita piuttosto che a crearsene una secondo i loro gusti. Riescono a progettare a lungo termine ma per farlo, spesso, sono costretti a rinunciare a ciò che li potrebbe far stare meglio.
Come sei visto da cuoco italiano all’estero? Solo per essere italiano quando arrivi in un posto parti con dei punti in più grazie alla tradizione culinaria che accompagna il nostro paese ed è per questo che vieni visto in maniera non molto positiva dai colleghi che potrebbero rimetterci. Oltre a ciò è importante dire che, se i datori di lavoro ci vedono di buon occhio, è anche dovuto dal lavorare molto senza chiedere tanto: sappiamo sacrificarci ed adattarci alle situazioni in maniera flessibile.
La cosa più strana che ti è capitato di vedere? Potrei dirtene migliaia! Da uscire una sera per una birra e tornare dopo tre giorni, dal vedere uomini e donne appartarsi dentro celle frigorifere, a fare risotti per 200 persone, o pulire 50 kg di capesante in 3 ore, fino alle nuove tecnologie in cucina che ti permettono di dare il colore che preferisci ai cibi o di scaldare la mozzarella facendola divenire liquida senza che mai diventi filosa grazie ad una sostanza di ultima generazione!

REALTA' SOMMERSE




Storia della realizzazione completamente indipendente di un videoclip musicale


I Nowhere Crowd sono un progetto musicale atipico per la scena locale. Fuori dagli schemi sia per il metodo di composizione che per il modo di procedere. I ragazzi, come loro primo passo, hanno realizzato un videoclip per la regia di Cristian Tomassini. Silvio, Francesco e Cristian ci hanno raccontato come è nata questa “folle idea”, dimostrandoci come sia possibile realizzare un ottimo prodotto con pochi mezzi ma con tanta passione e voglia di fare.

Chi sono i Nowhere Crowd?
S: I Nowhere Crowd, più che gruppo musicale, ci piace definirli “open project”. Siamo cinque musicisti (un batterista, un tastierista, un bassista e due chitarristi) che lavorano a progetti, scrivono, compongono e registrano musica; inoltre curiamo in prima persona il lato artistico e la produzione della nostra musica. Non siamo una vera e propria band, bensì un progetto che nasce a settembre 2009 e deriva da altri progetti diversi. Non abbiamo un cantante fisso come tutte le band, ma cantanti turnisti, che vengono a darci una mano nei singoli progetti.
Quando e perché nasce l’idea di un videoclip musicale?
F: L’idea nasce dal fatto di aver provato in passato le classiche esperienze dei musicisti locali: suonare in giro, registrare dei demo o degli album… e aver visto come siano inefficaci. Abbiamo deciso di sperimentare perciò nuovi canali per farci conoscere.
S: Il tutto è nato in modo naturale e non programmato. Il pezzo è stato scritto senza forzature, senza la ricerca della commercialità, senza l’intenzione di abbinarci un video. Il video è nato subito dopo, quando abbiamo steso il testo.
F: Ci siamo detti: lavoriamo in proprio sulle canzoni, siamo in grado di farlo? Siamo dotati di quel minimo di strumentazione necessaria che ormai, grazie alla grande diffusione dei computer, è divenuta accessibile a tutti e abbiamo pensato: siamo in grado di fare un prodotto vendibile, apprezzabile? Ci siamo risposti di sì, abbiamo fatto i nostri esperimenti, ci siamo comprati la nostra attrezzatura, abbiamo constatato che il risultato poteva essere soddisfacente e abbiamo deciso di fare così: anziché aspettare di avere pezzi per un cd completo che non comprerebbe comunque nessuno, pubblichiamo canzone per canzone, sfruttiamo la velocità del brano per quelle che sono le dinamiche di internet; butti il singolo sui social network, lo fai girare un mese e nel frattempo lavori ad un secondo pezzo.
Quindi il pezzo lo avete registrato voi da soli?
F: Sì, il pezzo è fatto totalmente “in casa”.
Come siete arrivati poi al contatto con Cristian per il videoclip?
S: Ci siamo informati se fosse possibile realizzare un video, abbiamo girato parecchie case di produzione di video locali, ma le cifre erano altissime e nemmeno il modus operandi ci piaceva, perché tutti quanti ci han detto: dateci il soggetto, diteci quando volete iniziare le riprese e noi facciamo tutto. Non c’era la collaborazione che noi cercavamo, il lavorare insieme sul progetto, c’era un lavoro per cui tu sei il cliente che paga per un servizio. Noi invece volevamo essere parte attiva anche della lavorazione del videoclip. Alla fine ho mostrato agli altri ragazzi i lavori precedenti di Cristian, sono piaciuti e l’abbiamo contattato.
C: I ragazzi mi hanno contattato e io gli facevo tutto: preproduzione, postproduzione, regia, fotografia… L’idea della band era di collaborare parecchio a livello visivo: nella testa di Silvio c’era già tutto da questo punto di vista, c’era la sceneggiatura, il soggetto. Naturalmente alcuni espedienti, alcune trovate sono venute durante le riprese.
Svelaci alcuni trucchi del mestiere? Come avete fatto ad ottenere certi effetti?
C: Tutte le finestre che si muovono da sole o le cose che si rovesciano sulla tavola sono ottenute tramite fili da pesca tirati dai ragazzi nascosti in vari punti della stanza. La scena in cui trema tutto stile terremoto è ottenuta in postproduzione e con la fotografia. Una curiosità: la scena in cui le cose sulla tavola esplodono tirate dai fili doveva essere un buona la prima, perché c’era del vino rosso che si rovesciava e una volta sporcata la tovaglia bianca non si poteva più far niente. Abbiamo girato la scena, ma io mi son scordato di registrarla e alla fine ce la siamo cavata perché il vino era talmente diluito che la macchia dopo pochi minuti era scomparsa. L’effetto della bambina che entra nella tv è ottenuto col cosidetto green screen (schermo verde): un filtro del computer fa diventare il verde trasparente, dando così l’impressione che ci sia un buco. Anche questo è un effetto low cost: l’abbiamo ottenuto semplicemente comprando del cartoncino verde. Sembra che la bambina entri nella tv mentre in realtà entra in una scatola di cartone verde. Il sangue era top all’amarena e top al cioccolato.
S: Anche nella costruzione dei materiali abbiamo lavorato assieme, ad esempio abbiamo costruito da soli parti dell’attrezzatura come il crane (la gru che sposta la telecamera nda), o il generatore di ombre costruito coi lego technic.
C: Grazie alla postproduzione poi si riesce ad ottenere un buon lavoro, si aggiungono gli effetti giusti per rendere il tutto non pacchiano ma competitivo, altrimenti ci vogliono una valanga di soldi.
Quali sono state le location?
C: La sala prove del centro giovanile, dove sono girate le scene col cantante, la casa di Gargiulo (il chitarrista della band nda) e della sorella (l’attrice all’inizio, la mamma della bambina nda), in cui abbiamo ambientato le scene con la bimba, e il fury a Camazzole, che ha ospitato invece le parti col gruppo.
Vi siete occupati voi stessi dell’allestimento delle scene?
C: In tutto quello che era la produzione, quindi anche allestire le location, la band si è arrangiata, risparmiando quello che sarebbe stato necessario dare ad altri per fare lo stesso lavoro.
F: Gli unici aiuti esterni sono stati Roberto Sechi per le luci, Roberto Fiori per la fotografia, Marta Rambaldi per il trucco… oltre naturalmente agli attori.
Avete fatto proprio tutto autonomamente… 
S: Sì, ci siamo accorti con la nostra esperienza musicale precedente che ogni volta che affidi il tuo progetto a qualcun altro rischi di non essere soddisfatto alla fine, rischi di non riuscire a sviluppare la tua idea originale a pieno. Con Cristian ci è piaciuto lavorare perché siamo riusciti a realizzare l’idea che avevamo all’inizio. Ci siamo occupati inoltre della promozione, cioè di pubblicizzare il videoclip. Il sito del gruppo (www.nowherecrowd.com) per esempio è stato fatto da Francesco, che è un esperto del settore. Si tratta di un mini sito cinematografico. Ci siamo creati un profilo facebook, il myspace e ci siamo fatti i nostri contatti. Anche della grafica e dei costumi ci siamo occupati noi.
La parola d’ordine mi pare di capire è stata: tutto ciò che possiamo fare da soli facciamolo!
C: Certo! Il cinema, così come la musica, si possono benissimo fare anche con pochi mezzi, bastano tanta passione e tanta voglia di fare. E poi, al giorno d’oggi, con i passi in avanti della tecnologia e la sua diffusione chiunque sia in grado di usare un computer può fare un sacco di cose.
S: Con la conoscenza, con la fatica che si fa, si può sopperire a tutto ciò che altrimenti si pagherebbe.
Quali sono i principali riferimenti del videoclip? Da cosa siete stati influenzati?
S: Sicuramente Nightmare. Da quel film è stata presa l’idea dell’uomo nero che aspetta la bambina, l’idea del sogno malato della bambina stessa ed alcuni elementi che appaiono nel videoclip.
C: Per quanto riguarda me l’elemento tv è tratto dal film di Cronenberg Videodrome: la tv intesa come ciò che ci plasma, che influisce sulle nostre menti. La presenza della bambina poi può richiamare molti film, da L’esorcista a Shining, a The Ring.
In quanto tempo è stato girato il videoclip?
F: Le riprese sono state fatte in quattro giorni.
C: Siccome però si poteva girare sostanzialmente solo il sabato e la domenica a causa degli impegni di tutti, complessivamente le riprese son durate due mesi. Quattro giorni è comunque un tempo molto breve rispetto a quelli soliti. In ogni location, non avendo una troupe, ci sono un’infinità di cose da fare. Anche la preproduzione, cioè segnare cosa serve e decidere le location, è stata fatta in quattro giorni. La postproduzione e il montaggio li ho fatti col computer nella mia cameretta i mesi seguenti le riprese.
S: Il tutto ha avuto inizio a Gennaio ed è finito a inizio Giugno. Il videoclip  è stato pubblicato il 21 Giugno.
Il prossimo passo?
S: La pubblicazione del video è solo l’inizio.
F: Non c’è una strada consolidata per fare promozione. Abbiamo pensato a tutte le piattaforme di distribuzione potenzialmente interessanti: social network, webzine (magazine on-line), giornali, radio on-line, radio vere e proprie, tv on-line… Il nostro mercato non è nazionale, abbiamo fatto un prodotto per l’estero. Tutte le idee che ci vengono per fare pubblicità cerchiamo di sfruttarle. Abbiamo stampato 10000 volantini con la locandina del video e li distribuiamo in giro.  Sul sito c’è la possibilità di scaricare delle cose in più: la versione del pezzo non compressa, quindi di qualità superiore rispetto al formato mp3, il video per cellulare, wallpaper… e tutto gratuito, l’unica cosa che chiediamo in cambio è un indirizzo email per avere contatti.
Una domanda per Cristian: quali sono le differenze maggiori tra girare un cortometraggio e un videoclip musicale?
C: Quando inizi a fare corti la prima cosa che non hai sono gli attori, di conseguenza non si hanno neppure i dialoghi. Perciò, siccome non avevo la possibilità di trovare attori professionisti, ho giocato sulla musica e sulle immagini: quindi i miei primi corti erano sostanzialmente dei clip, il taglio era già quello dei video. Io avevo già dei videoclip in mano poiché quando sovrapponi musica ed immagini quello che ottieni non è nient’altro che un videoclip. I clip sono belli da fare perché non hai il problema dell’audio: sai che sotto c’è la canzone e puoi sbizzarrirti mettendo praticamente qualunque cosa ti venga in mente, non hai connessione audio, non ci sono i dialoghi, è molto più semplice e molto più espressivo perché puoi metterci in pratica di tutto. D’altra parte il videoclip sta rivoluzionando la stessa tecnica cinematografica; ormai moltissimi film adottano il taglio e le tecniche dei video musicali.
Progetti per il futuro?
S: Vogliamo pubblicare altri singoli, uno alla volta, sullo stile di quanto fatto con questo primo pezzo.
F: Il prossimo step è quello di fare canzoni in modo da avere un Ep che sarà possibile preordinare e ordinare ad un prezzo simbolico. Rilasceremo le canzoni gratuitamente fino alla realizzazione dell’Ep; poi quando questo sarà pronto butteremo fuori il pacchetto completo per chi è desideroso del feticcio cd. Crediamo ormai che il cd stia per morire, soprattutto per una band emergente non ha senso puntare su un cd.
C: Sta per essere pubblicato un cortometraggio, girato insieme ad un ragazzo di Padova, dal titolo “La crisi”, con attori professionisti e con una troupe vera e propria, ma anche con la partecipazione e l’aiuto dei Nowhere Crowd (Francesco fa il fonico, Silvio ha fatto la comparsa). È stata un’esperienza straordinaria! La mia prima esperienza professionale, anche se sempre indipendente. Abbiamo finito le riprese, ora dobbiamo finire il montaggio, a Settembre dovrebbe uscire. Il cinema è comunità, gente che suda e fatica insieme, e ce n’è tantissima appassionata pronta a sacrificare tempo ed energie per il cinema. Quando dici alla gente che fai cinema o musica o cose di questo genere sembra che tu stia giocando, invece è lavorare sodo: per “La crisi” abbiamo lavorato 15 ore al giorno!

giovedì 1 luglio 2010

DAL FIUME AL MARE


Intervista ad Igor



Dove ti trovi e cosa fai?
Vivo in un paesino vicino a Liverpool (Middlands), mi son trasferito qui in seguito ad un'offerta di lavoro allettante dopo aver vissuto per 2 anni a Londra
Lavoro per una grossa ditta in ambito biotecnologico/diagnostico. Il mio lavoro consiste nell’ installare e mettere a punto macchinari per la genetica.
Quali sono le differenze maggiori che hai notato tra l'Inghilterra e l'Italia, in particolare tra Londra e Carmignano?

Ci sarebbe da parlare per ore..
Certamente! Credo che tutti dovrebbero farla. Per due motivi


Partiamo da Carmignano, piccola realta' dove tutti si conoscono (bene o male) ma che pur nel suo piccolo offre un sacco di attivita'.. e un sacco di chiacchere di fronte a una bibita..
Londra.. Londra e' immensa.. multietnica.. frenetica.. c'e' sempre qualcosa da fare o da vedere.. Arte allo stato grezzo e cucine da tutto il mondo.. Una citta' in cui ci si perde facilmente.. un po' in tutti i sensi.. Una citta' in cui tutti son stranieri e forse anche per questo in grado di regalare un'atmosfera quasi famigliare.. Tutti ti capiscono perche' tutti son nella tua stessa situazione.. e vice versa ovviamente.
Per quanto riguarda invece le due nazioni.. Diciamo che in inghilterra la gente mi e' sembrata decisamente piu' ospitale e aperta dal punto di vista intellettuale.. Un po' per tradizione (anche se sembra un paradosso) e un po' per necessita' (essendo un ex potenza coloniale si e' trovata ad affrontare problemi di integrazione culturale, religiosa etc ben prima di noi). 
In generale.. gli inglesi prendon i problemi un po' piu' alla leggera.. senza farne un dramma.. Salvo poi trovarsi a fronteggiare situazioni piuttosto "pesanti" come alcolismo e gravidanze giovanili..
Qui inoltre la gente si informa! Legge! cerca di capire ed approfondire le notizie.. e il cibo non e' poi cosi' male!
Venendo all'Italia.. debbo ammettere che vedendola da fuori sembra diversa.. I difetti del BelPaese si accentuano una volta tolti i paraocchi, cosi' come i pregi!
Una cosa interessante che mi e' capitata e' stato il dovermi fronteggiare per la prima volta con gli stereotipi che riguardan gli italiani.. alcuni piu' veri di altri e tutti capaci di strapparmi un sorriso, vuoi per simpatia o per amarezza
Quali sono stati i motivi che ti hanno spinto a trasferirti?
A dire il vero son partito un po' allo sbaraglio.. Ma cio che mi spinse a partire furon la voglia di imparare l'inglese e la voglia di esplorare un po' realta' diverse da quella italiana. Londra sembrava la scelta piu' ovvia non solo per la lingua ma anche per la varieta' di culture ed etnie che la caratterizzano. A Londra si puo' veramente aver un assaggio di ogni altra parte del mondo.
Cosa ti manca di più dell'Italia e di Carmignano?
Per quanto sembri banale cio che piu' mi manca dell'Italia e di Carmignano son la famighlia e gli amici. Uno degli stereotipi sugli italiani e' che siam un po' mammoni e debbo ammettere che l'esser lontano da "Mamma Dunja" e' l'unica cosa che mi rende malinconico.
Rifaresti questa esperienza?
Senza alcun dubbio.. Anzi.. la rifarei 100 volte, provando paesi diversi di volta in volta (sto gia' progettando quale sara' la mia prossima meta)
Consigli anche ad altri ragazzi un'esperienza come la tua? In primis per il cambio di prospettiva: vedere realta' diverse e vedere la realta' che conosciamo da un'altra angolatura.Poi per acquisire un po' di "forzata indipendenza".
Che progetti per il futuro? Pensi di tornare o pensi di restare all'estero? Credo non sia ancora ora di tornare per me, in fin dei conti conosco abbastanza bene la realta' italiana e posso tornare quando mi pare. Preferisco l'idea di spostarmi in qualche altro paese, magari imparare un'altra lingua, vivere un'altra esperienza simile a quella che sto vivendo ora.

IN SELLA CON LA STORIA




Intervista a Davide del 3lambda, la Confraternita scooteristica nata a Carmignano

La “Scooter Confraternity 3lambda” riunisce a Carmignano giovani appassionati di scooter a marce che spesso, passando per le strade di tutti i giorni, riescono a ricostruire per pochi attimi degli scorci vintage ancora oggi a metà 2010. Sicuri che momenti di intreccio temporale come questi siano capitati ad ognuno di voi, Fuori Luogo ha voluto intervistare Davide Mironi, il precursore del movimento scooteristico di Carmignano. 
Dove ha avuto inizio la tua passione Davide?
In Inghilterra, nel paese di Ruislip dove andai più di 10 anni fa a trovare un mio cugino inglese. Si sa che ogni giovane nel corso della sua adolescenza sperimenta molte passioni e gli inglesi si distinguono per come riescono a rendere queste passioni delle vere e proprie manie. Quando andai a Ruislip mio cugino stava passando la sua fase di mania per gli scooter per cui mi fece salire sul suo e mi portò ad una festa a cui partecipavano ragazzi e ragazze che condividevano questa sua passione. Da lì portai a casa alcuni giornali che descrivevano quel mondo e non ci misi molto ad appassionarmi.
Quale fu la tua prima avventura?
Era il 2000 ed a bordo di un J50 Innocenti mi dirigevo verso l’osteria Settimo Tornante sui colli di Marostica. Avevo letto da qualche parte che ci sarebbe stato un raduno di scooter d’epoca. Partii da Carmignano e non vi dico gli sforzi per scalare quei colli su quel cinquantino, per poi finalmente arrivare e scoprire che avevo sbagliato a capire il giorno del raduno…
Da lì non può che essere continuata in meglio…
Sicuro, nel 2002 assieme agli amici Alberto ed Enrico Bartolomei, Lello Sperotto e molti altri che poi si aggiunsero, ci organizzammo per la prima volta tutti assieme, ognuno con la sua Vespa o Lambretta, per raggiungere Teolo dove si svolgeva un importante raduno. Fu per noi la prima esperienza di gruppo ed alla prima uscita vincemmo il trofeo messo in palio per il gruppo più numeroso! Da qui poi venne automatico il desiderio di costituirci in pianta stabile e demmo il nome 3lambda alla nostra confraternita (il nome riprende quello della confraternita del film “La rivincita dei NERDS”).
Altre esperienze significative del vostro gruppo?
Indimenticabili le uscite del 2003 e 2004 verso il raduno dell’Isola d’Elba e quella, sempre del 2004 per quello di Imola. Le particolarità dei lunghi viaggi in scooter stanno anche negli aneddoti che si creano lungo il percorso: le rotture dopo pochi km dalla partenza, l’ingegnarsi per ripararle, studiare strade extraurbane poco affollate che assicurino un viaggio sicuro e piacevole, le borse da attaccare in maniera più stabile possibile al mezzo e la serie di ricordi che si generano lungo un serpentone formato da trenta scooter che viaggiano verso la stessa meta.
Ed oggi cosa conservate di quei primi pioneristici momenti?
La passione per la particolare meccanica di cui sono fatti i nostri scooter. Sono marchi italiani conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo anche se vecchi di 50 anni e questo l’abbiamo verificato ai raduni dove abbiamo conosciuto scooteristi di altre nazioni. E poi col tempo si conoscono ed apprezzano tutte quelle sfaccettature che compongono la cultura scooter. Oltre ai mezzi c’è spazio per la musica, il ballo, le feste tra appassionati, la storia e la tradizione dei marchi e dei movimenti giovanili che nel corso degli ultimi 50 anni hanno condiviso la nostra stessa passione.
Come si risolve, a tuo parere, la storica rivalità tra Vespa e Lambretta?
Premetto che io sono di parte (Davide parla da lambrettista ndr). Molto dipende dal mezzo che si riesce a reperire nel garage di casa, magari ereditato da padri o addirittura nonni, per cui non sempre è una scelta.
Poi se parliamo di meccanica ed estetica la Lambretta vince dal punto di vista della complessità costruttiva e della personalizzabilità, mentre la Vespa è senz’altro più spartana ed accessibile. Comunque sia ci vuole passione, fantasia e ci si deve sporcare le mani .
E’ un’impresa trovare meccanici esperti per i vostri mezzi?
A parole no, in realtà molti meno di quelli che si spacciano per esperti sanno di cosa si parla. Officine competenti si trovano, magari sono meno in vista di altre ma all’interno si trova personale competente e spesso giovane che sa dove mettere le mani e le mette con passione.
Cosa diresti per convincere un ragazzo o ragazza a scegliere uno scooter d’epoca?
Gli parlerei di quanto è bello un viaggio fatto a bordo della loro sella. Direi che non è comune arrivare in un posto, magari affollato, e parcheggiare proprio davanti all’entrata. Racconterei che il divertimento di una riunione di scooteristi parte dal momento stesso in cui si accende il motore per andare e che il viaggio fa già parte della serata in compagnia. Si può chiacchierare anche se si sta su mezzi differenti e, soprattutto, mi metterei a raccontare gli aneddoti più divertenti dell’esperienza di uno scooterista con ormai dieci anni di storie divertenti e appassionate da tramandare.
Se qualcuno volesse muovere i primi passi e cercasse un consiglio può contattarmi alla mail: maricadavide@yahoo.it oppure ci può trovare ogni mercoledì sera al Black&White di Camazzole dove ci troviamo noi del 3lambda per programmare i prossimi viaggi e chiacchierare di scooter ma non solo.  

L'EDITORIALE

Estate 2010 - Fragranze da cavalcavia

Lo scorso numero di Fuori Luogo trattava in ultima pagina le vicende di Radio Riviera Brenta. L’articolo e il suo tema hanno riscosso notevole successo tra i carmignanesi che hanno superato gli “anta” e ci è capitato di raccogliere parecchie testimonianze di ex ascoltatori che ci informavano di come, negli anni ‘70 ed ‘80, il paese ospitasse ben tre radio libere che con stili vari, ma indistintamente genuini, andavano a formare un’alternativa invidiabile per i radioascoltatori locali.
Trent’anni dopo una nuova primavera comunicativa sembra sbocciare in paese, fatta non di parola parlata ma scritta. Se la varietà della proposta è senza dubbio una ricchezza per i carmignanesi, molto ci sarebbe invece da riflettere sui suoi molteplici livelli di genuinità. E per genuinità intendiamo i motivi che spingono a scrivere e lo stile con cui lo si fa.
Se per lasciar comprendere i primi ai propri lettori è possibile esplicitarli chiaramente oppure seguire una linea giornalistica quantomeno individuabile, per chiarire lo stile il presupposto essenziale è segnalare  l’autore o gli autori dei pezzi. La firma insomma consente di prendersi responsabilità e meriti di fronte ai lettori, senza barricarsi dietro pseudonimi fantasiosi che rischiano di penalizzare la chiarezza dei messaggi trasmessi.
Senza tuttavia arrogarci l’immeritato e impegnativo ruolo di garanti, ci sembra importante ribadire che gli articoli di Fuori Luogo sono tutti scritti da coloro che fanno parte della redazione (segnalati sotto la testata con nome e cognome), mentre tutti i contributi che arrivano da collaboratori esterni sono firmati (sempre con nome e cognome) sotto al titolo del pezzo stesso.
Prima di lasciarvi al numero estivo vi preannunciamo, anche se già vi sarà saltato all’occhio, una nuova veste grafica del giornale, meno grezza e più leggibile (cerchiamo così di adeguarci ai più alti standard del resto dell’offerta giornalistica carmignanese) resa possibile dall’allargamento della redazione e dalla conseguente crescita delle sue competenze in materia.
In ultima pagina spazio alla prima iniziativa pubblica che sarà organizzata a Settembre da Fuori Luogo con il duplice obiettivo di dare ulteriore spazio alle proposte che ospitiamo nei nostri articoli e rimpinguare un po’ le casse in prospettiva della lunga stagione 2011. Buona lettura! 

lunedì 3 maggio 2010

DAL FIUME AL MARE



Intervista ad Irene



Ciao Irene, dove ti trovi e cosa fai?
Vivo a Praga da un anno e mezzo, sono insegnante di lingua e cultura italiana all'Istituto italiano di Cultura di Praga.
Dopo un Master in Didattica dell'italiano mi sono chiesta: e adesso? Praga è arrivata sul mio cammino in maniera casuale, non avevo mai considerato la possibilità di viverci, semplicemente ho inviato il mio curriculum come in molti altri posti, ho passato un colloquio di selezione e mi sono detta: perché no?
Quali sono stati i motivi principali che ti hanno spinta a trasferirti all’estero?
La scelta di vivere all'estero è stata dettata da motivi differenti: da una parte la maggior facilità di svolgere il mio lavoro all'estero in quanto insegnante di italiano per stranieri, dall'altra la grande difficoltà attuale di inserirsi nel sistema d'insegnamento pubblico in Italia. Inoltre la possibilità di vivere all'estero mi ha da sempre incuriosita e attratta, trovo infatti che sia una grande opportunità poter ricevere nuovi stimoli, vedere, toccare, sentire, sperimentare e anche scontrarsi con cose nuove.
Com’è Praga vista con gli occhi di una ragazza italiana che ci vive?
Vivere all'estero non è sempre facile, nonostante la Repubblica Ceca sia a soli 900 km da Carmignano le differenze culturali si fanno notare. Generalmente gli italiani identificano la Repubblica Ceca con Praga, i locali notturni con annessi e connessi e la birra a fiumi. Non voglio certo dire che questo non sia vero, anzi, ma Praga è una città di un milione e mezzo di abitanti, il centro culturale e politico della Repubblica Ceca ed è sicuramente una città molto dinamica ed attiva. In giro per la città ci sono centinaia di teatri, manifestazioni, eventi, concerti e festival interessanti, solo che non bisogna cercarli tra le folle di turisti a Piazza San Venceslao. Come spesso capita, la Praga turistica non è l'animo di Praga, anche se la città vive di questo e sa bene come spremere i turisti.
Se da una parte quindi le opportunità di fare qualcosa di nuovo o di intraprendere una qualsiasi esperienza non mancano, come in ogni grande città c'è anche l'altra faccia della medaglia. Qui manca la familiarità e il contatto umano di persone che sono cresciute insieme a te, non esiste il senso di una comunità che ti sostiene e ti appoggia: un esempio molto banale è che nessuno conosce i propri vicini di casa o non ci si può aspettare di incontrare un amico casualmente per strada o al bar e fare quattro chiacchiere, senza contare che la mentalità ceca è parecchio diversa dalla nostra.
E come sono i cechi? È stato difficile rapportarsi con loro?
Generalmente i cechi tendono ad essere riservati e introversi, quando conoscono una persona hanno bisogno di prendere le misure e di stabilire un contatto krok za krokem (passo dopo passo), ma quando si diventa amici, la loro amicizia non è mai superficiale, anche se bisogna considerare che la fase di limbo può durare molto a lungo! I cechi inoltre amano organizzare tutto per tempo, pianificano gli eventi, anche gli incontri al bar con gli amici, e per questo possono sembrare poco spontanei e all'inizio per uno straniero è un po' disorientante. Un'altra cosa fondamentale per loro è la natura, le escursioni, i boschi e la loro casa di campagna, ogni ceco ha una chata fuori città, adorano le montagne e gli sport invernali. Insomma sono un po' degli orsi selvatici, ma sicuramente dal cuore buono!
Alla fine ti ritieni soddisfatta della tua scelta? Pensi di tornare “a casa” o di rimanere all’estero?
Il segreto di vivere fuori dal proprio paese, in base a quanto ho potuto apprendere attraverso la mia esperienza, sta nel ricreare una micro-comunità con cui condividere esperienze, idee, emozioni. A Praga, dopo una fase inospitale in cui ho dovuto cercare il mio spazio, ho trovato un equilibrio e una rete sociale che mi sorregge e per ora non penso di ritornare in Italia. Conoscendo la mia indole so anche che mi piacerebbe sperimentare altri posti e altre culture, fermo restando che non rinuncerei mai al mio lavoro, perché sono riuscita ad ottenere proprio quello che volevo, un lavoro dinamico, creativo, indipendente e autogestibile, che mi dà la possibilità di stare con la gente e spesso di conoscere persone straordinarie.
Insomma, vivere all'estero comporta sempre una scelta, il dilemma è decidere tra appartenere o andare, con i piaceri e i dispiaceri che accompagnano entrambe le possibilità. Fare un'esperienza all'estero è sicuramente formativa a 360 gradi, bisogna provare per conoscere e come dice Kureishi “se non si lasciasse niente o nessuno non ci sarebbe spazio per il nuovo” (da “Nell'intimità”).

UNA RADIO LIBERA A CARMIGNANO NEGLI ANNI '70


La sede della Radio nel garage di Ceo Pajaro



Alla fine degli anni settanta, tra Carmignano e Fontaniva, nasceva una radio libera che avrebbe tenuto compagnia a moltissimi ascoltatori fino all’inizio del decennio successivo. Siamo andati ad incontrare (Anna Agugiaro) una delle fondatrici e speaker di questa radio che era nota col nome di Radio Riviera Brenta.

Quando e dove nasce Radio Riviera Brenta?
La radio nasce nel 1976 dalla passione e dalla voglia di stare insieme di un giovane gruppo di amici di 16-17 anni. Il nome ovviamente è stato scelto per la nostra collocazione: la riviera del Brenta, per l’appunto. Esisteva anche un adesivo della radio: il ponte sul fiume in giallo e lo sfondo blu. La prima sede è stata il garage di “Ceo Pajaro”: c’era un tavolo con i due piatti per i dischi, il microfono e un registratore. Dalla vetrata si godeva un panorama molto rustico: il prato sul retro del bar e le galline che vi gironzolavano. A noi piaceva, rispecchiava la genuinità della radio e di noi ragazzi. Era tutto molto tranquillo, naturale, amatoriale… casereccio direi. Dopo un paio d’anni il quartier generale si è spostato al di là del ponte, a Fontaniva, a casa di Curzio Zancan, il vero e proprio fondatore e “tecnico” della radio, e qui continua a vivere ancora per due anni circa.
Come funzionavano le trasmissioni della radio? C’erano delle rubriche fisse?
La radio andava in onda tutti i giorni, dal lunedì al sabato. La mattina era Curzio che di solito andava in diretta, oppure metteva una cassetta registrata. Dalle due di pomeriggio iniziavano le rubriche: il radiogiornale, il programma per bambini, l’oroscopo, la trasmissione che si occupava di musica italiana e quella che invece mandava in onda solo canzoni straniere… Io ad esempio mi occupavo del programma per i bambini e dell’oroscopo. A volte ho condotto anche il radiogiornale, il quale, in sostanza, consisteva nel leggere semplicemente le notizie dai quotidiani, ma talvolta al suo interno trovavano spazio anche notizie del borgo, o fatti scherzosi, spesso di presa in giro tra noi speaker. Ogni rubrica durava circa un’ora e andava in onda in un giorno fisso, che di solito era quello in cui lo speaker che se ne occupava non aveva altri impegni. Al massimo, se qualcuno non poteva una volta, veniva sostituito. Era tutto volontariato, nessuno veniva retribuito per ciò che faceva; tutti partecipavano per pura passione, per la voglia di stare insieme e perché era una novità divertente e stimolante. Ciascuno si preparava quello che voleva per la sua ora di trasmissione e andava, in assoluta libertà e seguendo i suoi gusti.
Una radio libera in tutti i sensi insomma…
Assolutamente sì! Non c’era uno specifico indirizzo musicale, ognuno si preparava la sua scaletta, seguendo i suoi gusti personali e senza che nessun altro controllasse prima ciò che sarebbe stato trasmesso. Soltanto una volta fummo costretti ad intervenire per “censurare” un nostro amico che, appassionatissimo di Claudio Baglioni, trasmetteva esclusivamente le sue canzoni. Ma fu un’eccezione. Anche diventare speaker era semplicissimo: bastava chiedere a Curzio il quale ti diceva di prepararti chè il giorno dopo avresti avuto un’ora tutta tua. Nessun provino perciò, la radio era aperta a tutti, più volontari c’erano meglio era, così magari si poteva andare avanti a trasmettere la sera qualche ora in più. Non avevamo vincoli, gestivamo la radio come potevamo, secondo le nostre possibilità e sempre in modo totalmente volontario.
Com’era il rapporto con gli ascoltatori? Avete ricevuto apprezzamenti o critiche particolari?
Abbiamo sempre avuto un bel seguito di pubblico, nonostante non ce l’aspettassimo. Riuscivamo a coprire un raggio di circa 35-40 km con le trasmissioni, perciò ci potevano ascoltare fino al di là di Padova. Una sera, ad esempio, siamo stati invitati a cena, per fare conoscenza, da una famiglia di nostri fan residente in un paese subito dopo Padova. Abbiamo sempre ricevuto molti attestati di stima, non mi ricordo critiche; non abbiamo mai invaso il campo di nessuno e quindi non c’era motivo per cui la radio dovesse spiacere a qualcuno. Inizialmente, quando trasmettevamo da Ceo, non avevamo il telefono, quindi l’unico mezzo attraverso il quale gli ascoltatori potevano mettersi in contatto con noi, fare richieste, o semplicemente complimentarsi con noi, era la lettera. Ce ne arrivavano parecchie, specie di bambini. Col passaggio della sede a casa di Curzio era arrivato anche il telefono e riuscivamo a fare anche programmi in diretta col pubblico che chiamava e faceva le sue dediche. Inoltre, abbiamo organizzato delle feste della radio, che pubblicizzavamo nelle trasmissioni, ma a cui pensavamo di ritrovarci in quattro gatti. Invece ogni volta c’era il pienone. Di solito le feste si svolgevano da Ceo, dove una pasquetta abbiamo addirittura trasmesso in diretta fuori in giardino con tutti i villeggianti intorno, oppure in dei capannoni che ci affittavano. Ma l’evento che forse aveva riscosso maggior successo è stata una gara di ballo che avevamo organizzato a Nove, con primo premio una Cinquecento nuova. Allettati anche dal ricco montepremi, accorsero in moltissimi. Quando fu ora di consegnare coppa e premio alla coppia vincitrice, abbiamo dato loro una banconota nuova di zecca da cinquecento lire. Subito non l’hanno presa benissimo poiché si aspettavano l’auto, ma poi anche loro hanno riso della nostra innocente trovata pubblicitaria per attirare più gente possibile…
Come facevate a sostenervi economicamente?
La radio si manteneva quasi esclusivamente tramite autofinanziamento, che derivava principalmente da queste feste. Poi c’era la pubblicità: gli sponsor comunque erano pochissimi; noi andavamo in giro a cercarne, ma non se ne trovavano molti. La struttura della radio poi, non permetteva di fare chissà che pubblicità: gli “spot” stessi gli ideavamo noi, erano completamente fatti in casa. Un altro modo per fare fondi era organizzare giochi a premio, ma i premi che i negozi ci rifilavano erano per lo più cianfrusaglie orribili che noi stessi ci vergognavamo di mettere in palio. Insomma, non era facile andare avanti, riuscivamo a mala pena a coprire i costi pur essendo tutti volontari.
È per questo motivo che la radio ha chiuso?
Principalmente sì: i costi iniziavano a diventare davvero insostenibili! E poi gli impegni scolastici o lavorativi non ci lasciavano più molto tempo per la nostra passione radiofonica.
Che fine hanno fatto gli speaker di Radio Riviera Brenta?
Sono persone normalissime: chi ha famiglia, chi è restato qui nella zona, chi invece si è trasferito. Nessuno comunque è occupato nel campo radiofonico. La nostra era nata come pura passione, come semplice desiderio di stare fra amici, non è mai stata un lavoro o qualcosa di professionale. La radio era un punto di incontro, come oggi per tanti giovani può essere il bar ad esempio. Spesso ci andavamo anche nei giorni in cui non dovevamo trasmettere, soltanto per stare assieme. Per tutti noi è stata un’esperienza splendida, che ci ha arricchito enormemente, e quando ci ritroviamo ricordiamo sempre con piacere ed allegria, e un po’ di nostalgia, il periodo di Radio Riviera Brenta.