giovedì 1 marzo 2012

UNA MAESTRA RACCONTA LA SUA PROFESSIONE



Mi piace ancora tanto insegnare, non sono ancora pronta ad andare in pensione. A volte penso che dovrei per lasciare spazio ai giovani e per occuparmi di più della famiglia, tuttavia ho un ottimo rapporto con le mie colleghe più giovani: mi cercano, mi chiedono consigli, mi fanno sentire giovane. Insomma, do tanto ma ricevo anche tanto.
Inizia così il nostro incontro con una storica maestra elementare di Carmignano che ha insegnato a circa 750 alunni… compresi noi di Fuori Luogo. Con la curiosità e la gioia di rincontrare qualcuno che non si vedeva da tanto, ma anche con una sorta di imbarazzo e soggezione nell’ ”interrogare” la nostra maestra, partiamo per raccogliere le sue impressioni sull’universo scuola e su tutto ciò che gli gira attorno. Quel che segue è la testimonianza di tutta la sua passione per il suo lavoro, iniziato quasi 40 anni or sono.

Quali sono le differenze maggiori nell’insegnare oggi rispetto ad anni fa?
Ci sono molte differenze, a partire dai bambini che sono molto cambiati. Oggi hanno molto più senso critico, sono, per così dire, meno bambini, più consapevoli delle nozioni che ricevono, del perché delle cose. Ciò comporta anche un cambiamento nel modo di fare lezione: tempo addietro il maestro spiegava e gli alunni assorbivano ciò che ascoltavano; al giorno d’oggi, invece, la lezione è più interattiva, si fa coi bambini stessi, con la loro partecipazione attiva. Tutto ciò, se da una parte è positivo, dall’altra è controbilanciato da meno senso del dovere e della responsabilità nel bambino, il quale è anche meno autonomo. I ragazzi sono pieni di impegni e, a volte, la scuola passa in secondo piano. Sicuramente poi hanno meno rispetto, non hanno paura di nulla, ma al contempo sono più fragili: di fronte agli insuccessi vanno in crisi. Forse ciò è dovuto al fatto di misurarsi maggiormente con gli altri… Un aspetto che mi amareggia, infine, è la minor collaborazione della famiglia, dovuta sia a impegni lavorativi maggiori, sia a una vera e propria crisi di valori per cui la scuola perde importanza e i bambini vengono giustificati troppo facilmente.
Meglio il maestro unico o più insegnanti?
Oggi c’è il maestro prevalente che si occupa di tutte le materie, eccezion fatta per storia, geografia, inglese e naturalmente religione. Ormai sono 15 anni che sono insegnante prevalente, mentre in precedenza gli insegnanti erano suddivisi per aree disciplinari. Entrambe le tipologie di insegnamenti comportano vantaggi e svantaggi. Lavorando per aree si ha maggiore opportunità di aggiornarsi e si riesce a rispettare meglio l’orario, senza dover sacrificare alcune materie ad altre. Il bello di essere insegnante prevalente è che i bambini si affezionano a te in modo speciale, hai un rapporto privilegiato con loro trascorrendoci assieme cinque anni. Tuttavia, se non si è creato un buon team, si rischia di lavorare da solo, sia per quanto riguarda la mole di lavoro, sia per lo scarso confronto che si può avere con gli altri maestri che, in un certo senso, sono di passaggio.
Quali sono le maggiori difficoltà nella scuola odierna?
C’è poca attenzione per chi è in difficoltà: a causa dei tagli si fanno poche ore di compresenza e di sostegno non offrendo le giuste possibilità a chi è svantaggiato. Un altro problema grosso è quello dell’insufficienza degli spazi: poche aule attrezzate per le attività, molto spesso persino durante le ore alternative a religione non si sa dove portare i bambini perché le stanze sono tutte occupate. Purtroppo la situazione, soprattutto dal punto di vista economico, non è delle migliori e così gli sforzi delle maestre, ma anche del comune che ha sempre fatto tutto quello che poteva per la scuola, restano troppo spesso vani. Si tenga presente inoltre che c’è stato un forte incremento di iscritti negli ultimi anni (ad oggi 360 alunni in totale), dovuto tanto alla chiusura dei plessi di Camazzole, quanto all’arrivo di numerosi stranieri.
A proposito di stranieri: com’è la loro integrazione nella scuola e il rapporto con i compagni?
I bambini stranieri sono in media 5-6 per classe. Se sono nati qui non hanno alcun problema, né di adattamento, né didattico. Se invece sono arrivati da poco hanno ovviamente enormi difficoltà linguistiche e, non potendoci essere un insegnante che si occupa in particolare di loro, sono affidati esclusivamente alla generosità di qualche maestra. Il rapporto coi compagni invece è splendido: da questo punto di vista i bambini ci insegnano moltissimo sull’accettare “il diverso”, non fanno nessun tipo di distinzione, il loro comportamento è assolutamente spontaneo e libero da pregiudizi, non si chiedono mai il perché se qualcuno svolge un lavoro personalizzato differente dal loro. Quando in classe c’è un compagno in difficoltà non glielo fanno pesare, anzi, se quest’ultimo ha un successo scolastico sono i primi a metterlo in evidenza. Non ci sono bambini emarginati, la classe è una sorta di grande famiglia in cui tutti si prendono cura degli altri vicendevolmente.
Ha qualche episodio particolare che le è rimasto impresso?
Mi ricordo di un ragazzo che aveva la capacità di trasmettere filo e per segno tutte le problematiche di casa. Un giorno uggioso di maggio, vedendolo assorto nei suoi pensieri gli chiesi a cosa stava pensando e lui mi rispose: «Maestra, dizito chei slarga el madego stamattina?». Io stavo spiegando e lui pensava al fieno! Un’altra volta ho dato come compito un testo in cui dovevano usare tutti i dati sensoriali. A distanza di anni ricordo ancora il suo lavoro, breve ma in cui diceva tutto; si intitolava “Serate in famiglia” ed era così: «Era una sera d’estate, la luna si specchiava nella busa del pisso. A un certo punto abbiamo sentito splash. La cavera era caduta nella busa del pisso». Un altro episodio divertente è quello del “gato recion”: avevo dato un tema sull’animale domestico. Un bambino parla del suo gatto e scrive: «Quando il mio gatto sente i morosi che lo chiamano miagolando vuole andare fuori». Convinta che si trattasse di una gatta corressi tutti i maschili in femminili. Quando riconsegnai il tema il bambino mi disse che il suo gatto era maschio; a questo punto intervenne un secondo alunno: «Aeora el to gato lè recion!». Un terzo immancabilmente mi chiede: «Cosa vuol dire “recion”?»; io imbarazzata rispondo che significa che ha le orecchie grandi mentre il secondo alunno mi fissa scuotendo la testa. Altri bei ricordi sono legati alle feste sportive di fine anno che costavano sempre grande fatica ma davano pure innumerevoli soddisfazioni. E mi emoziona ogni volta che, magari subito dopo averli rimproverati, i bimbi ti chiedono: «Maestra, vuoi un caffè? Perché ti vedo stanca».
Per concludere: che consiglio darebbe a chi sta per intraprendere la carriera di insegnante?
L’unico consiglio che mi sento di dare è di non essere mai troppo sicuri; bisogna fermarsi continuamente a riflettere su ciò che si fa e chiedersi se lo si è fatto bene. È necessario mettersi costantemente in discussione e aprirsi al confronto con gli altri.

DAL FIUME AL MARE




La Svizzera di carlo: informatica e cioccolata


Dove ti trovi e che cosa fai?
Vivo a Zurigo e lavoro come programmatore informatico.
Come mai hai deciso di partire?
Era un’idea che avevo fin dai tempi del liceo. Nei miei primi viaggi all’estero sono andato a trovare degli amici che si erano trasferiti in Danimarca e Irlanda. Sono rimasto colpito dall’atmosfera giovane e multietnica di Copenhagen e dal verde dei paesaggi irlandesi e mi sono promesso che un giorno in Irlanda ci sarei andato a vivere.
Dopo aver lavorato a Carmignano per un paio d’anni, ho fatto un’esperienza di un anno a Bologna prima di trovare lavoro in un paesino sulla costa est dell’Irlanda. Cinque anni fa l’economia irlandese era ancora in crescita e c’erano molte offerte nel settore informatico. Sono rimasto per tre anni finché la curiosità di scoprire cosa facesse di Zurigo una delle città più vivibili al mondo mi portò in Svizzera.
Le tue impressioni sulla Svizzera
Da un lato le classifiche mettevano Zurigo al primo posto come qualità della vita, dall’altro nei miei venticinque anni in Italia non ricordavo di averla sentita nominare spesso. Londra, Amsterdam, Parigi e Barcellona erano le opzioni vincenti. A Zurigo c’erano le banche, il lago e si parlava tedesco. La strada fino alla cima della classifica era lunga, ma non mi veniva in mente molto altro. Eppure mi incuriosiva. Così quando ho ricevuto l’offerta di lavoro ho deciso di trasferirmi portando con me le più alte aspettative.
Ed eccomi qua, due anni dopo, completamente innamorato di questa città.
È efficiente, pulita, sicura e precisa come la migliore tradizione svizzera e allo stesso tempo giovane, artistica, vivace e trasgressiva come il melting pot di nazionalità che la abitano. Un terzo dei cittadini di Zurigo sono stranieri. Il prestigioso politecnico attira studenti e ricercatori da tutto il mondo. E molte posizioni nelle grosse aziende non richiedono la conoscenza del tedesco offrendo la possibilità di lavorare in inglese.
Zurigo offre servizi, infrastrutture e intrattenimento di una grande città ad una popolazione di neanche 400 mila abitanti. Ti dà la possibilità di trovare un concerto dal lunedì alla domenica, praticare il tuo sport preferito, scegliere tra più di trenta musei, trovare un locale che fa per te sia se arrivi in Ferrari che in skateboard. E allo stesso tempo ti puoi godere la natura e la tranquillità di una piccola città.
Ad esempio, io lavoro per una grossa banca e soltanto nella mia sede ci sono tre mila dipendenti. Gli uffici sono a soli dieci minuti di treno dal centro storico, eppure attorno ci sono fattorie e boschi. In pausa pranzo decine di persone escono a fare jogging in riva al fiume e a passeggiare nel verde.
I trasporti pubblici sono eccellenti e adoro la libertà di poter vivere comodamente senza macchina.
Per il mio tragitto casa-lavoro impiego venti minuti porta a porta e posso scegliere tra quattro tram e quattro autobus all’ora, praticamente un mezzo ogni otto minuti.
Sempre allo stesso preciso minuto, ogni giorno, ogni ora, dalle cinque di mattina a mezzanotte.
Al weekend ci sono servizi aggiuntivi dall’una di notte alle cinque di mattina che assicurano di riportare a casa anche il più festaiolo della compagnia.
Penso di non avere mai impiegato più di mezzora per raggiungere un qualsiasi altro punto di Zurigo. Treni, tram e autobus sono frequenti e incredibilmente puntuali; si riescono a prendere coincidenze anche quando si hanno solo due minuti per cambiare mezzo.
A facilitare ancora di più le cose c’è un sistema di tariffazione a zone all’interno delle quali con un singolo biglietto si può usare qualsiasi tipo di mezzo: treno, tram, autobus o barca.
Per completare il quadro delle classifiche, ce n’è un’altra che vede Zurigo al top: quella di città più cara al mondo, il che potrebbe renderla meno attraente agli occhi di un turista.
La tua visione dell'Italia è cambiata dopo esserti trasferito all'estero?
Diciamo che tendo a notare le piccole cose che funzionano diversamente, nel bene e nel male. La coda alle poste e il ritardo del treno sembrano ancora più lunghi quando ti abitui a non dover aspettare, ma una pizza non è mai stata così buona come a casa!
Ti è mai capitato di essere oggetto di pregiudizi o discriminazioni perché straniero?
Zurigo è così internazionale che magari saranno gli svizzeri a sentirsi discriminati. A parte gli scherzi, non sono mai stato vittima di pregiudizi né in Svizzera né tantomeno in Irlanda. Gli irlandesi sono persone aperte e accoglienti e mi hanno sempre fatto sentire come a casa.
La tua prossima destinazione?
Mi piacerebbe provare a vivere un paio d’anni fuori dall’Europa, al momento Vancouver e Sydney sarebbero le mie preferenze. La prima perché l’ho visitata l’estate scorsa e mi ha dato l’impressione di avere molto da offrire, l’altra perché sarebbe un’ottima base per esplorare quella parte di mondo.
Ma per adesso mi godo la Svizzera e, visto che Zurigo non sembra una città che si lascia tanto facilmente, probabilmente tra trent’anni sarò ancora qua a tentare di imparare lo Züritüütsch.

L'EDITORIALE

Il paese del giro-giro tondo



I riscontri al numero di Fuori Luogo su Ceo Pajaro ci hanno fatto vedere alcune cose che sarà importante ricordare e che vogliamo condividere assieme a voi in questo nuovo editoriale: la velocità con cui sono andate ad esaurirsi le copie cartacee nei punti di distribuzione in paese, il numero di richieste di ricevere la copia digitale da conservare che ci hanno raggiunto, le lettere e le e-mail di riconoscimento del valore di ciò di cui abbiamo deciso di parlare e l’affetto sincero e gratuito di un paese verso un’esperienza da cui tutti si sono sentiti e si sentono ancora accompagnati nel corso della loro vita.
Tutto ciò sembra poterci aiutare nel porre, anche nel nostro micro-mondo di Brenta Superiore, alcuni paletti valoriali da cui noi carmignanesi non intendiamo prescindere nella scelta di ciò di cui è importante prendersi cura.
Potremmo sommariamente provare a definire meglio questi paletti con il termine genuinità.
Quindi spontaneo, sincero, prendersi cura di ciò di cui ci si può fidare diventa una modalità per proteggere la “specie” da contraffazioni dell’identità, da ciò che, da dentro o da fuori, vuol minarne l’autenticità.
In questo numero proseguiamo idealmente la ricerca di quello che si può riconoscere come genuino andando ad ascoltare il racconto di una maestra della scuola elementare “E. De Amicis”  che da quasi quarant’anni accompagna e si fa accompagnare nel quotidiano lavoro di crescita di adulti e bambini di questo paese. Troverete anche la storia di Carlo, un giovane paesano partito dal nostro fiume per trovare il suo mare in riva ad un lago, e poi il commento all’opera più famosa di un grande autore italiano appena scomparso che aveva trovato la sua strada, anche lui, sulle sponde di un grande fiume portoghese, e torna la ricetta dello chef Andrea che ci propone un piatto semplice ma che, proprio per questo, troverà la sua specialità nella scelta della qualità dei suoi ingredienti.
Troverete anche un racconto in questo numero di Fuori Luogo. Sarà pubblicato in 3 puntate e ci accompagnerà quindi per 3 numeri, fino all’Estate. La pubblica uno scrittore appassionato di Carmignano che l’ha intitolata “Vincent e Margot”, i nomi dei due protagonisti la cui vicenda ci porterà a scoprire alcune profondità dell’animo di donne e di uomini.