lunedì 30 dicembre 2013

TRA L’ARGINE E LA RIVA - Il favoloso racconto della vita di Ceo Pajaro - Parte 2

I CLIENTI

“E la gente che viene qui, anche quella è cambiata negli anni?”
“I primi clienti con cui abbiamo iniziato a lavorare erano i casonieri, cioè gli abitanti della zona dei Casoni di Fontaniva che lavoravano con la ghiaia del Brenta. Poi col tempo sono arrivati gli operai del vaglio di Vaccari e di quello di Finesso, venivano qua per pranzo e spesso si fermavano anche a fine giornata, non si poteva però parlare di tante persone”.


“Appena aperto, si lavorava quasi esclusivamente con la bella stagione: da Pasquetta all’arrivo dell’Autunno, così nella stagione fredda noi si viveva con l’oseanda, una rete tra due alberi che avevamo montato dietro l’osteria (le foto dell’oseanda sono appese al muro del locale, ndr). Con questa si prendevano gli uccelli vivi e li si poteva vendere ai cacciatori come richiamo per la caccia. Oppure li vendevamo ad un certo Signor Coltro da Vicenza che poi riforniva le osterie dei Colli Berici. Era carne pregiata perché non veniva impallinata, li si uccideva schiacciandogli la testa cosicchè la carne rimanesse più ricercata”.
“Negli anni ’60 arrivarono le auto, si potevano percorrere tragitti più lunghi e i clienti iniziarono ad arrivare da più lontano, anche da Vicenza. E’ stato quello il periodo in cui abbiamo ottenuto il permesso di organizzare il tiro al piattello qua, dietro l’osteria. Si poteva sparare fino alle 11 di sera e i cacciatori non si perdevano la possibilità di tenersi allenati durante i periodi di inattività”.
“Negli anni c’è stato anche il momento delle colonie, quando l’acqua arrivava fino a dove oggi si può vedere la chiavica di Camerini, cioè a meno di 100 metri da qua. C’erano almeno 5 metri di profondità e i ragazzetti di Carmignano venivano qui a passare le giornate estive. Poi iniziarono a scavare in Brenta, l’acqua si abbassò e il bacino si seccò…”. 


“Secondo me” racconta ora Nano, “il grosso cambiamento per noi fu negli anni ’80, quando la Busa de Giaretta iniziò ad essere frequentatissima ed anche qua la gente arrivava a frotte. Fu il momento in cui si passò da una clientela di adulti (gli operai, ndr) a una di giovani che arrivavano con tutti i mezzi, moto, motorini, biciclette, anche col treno: c’erano ragazzi che partivano da Venezia col treno per venire a fare il bagno in Busa, scendevano in stazione a Carmignano e poi se la facevano a piedi fin qua. Che periodo!”.
“Al giorno d’oggi si vive in parte ancora di quei gloriosi periodi degli anni ’80. La gente viene numerosa ma non come all’epoca. La cosa bella che ci capita è riconoscere chiaramente i ricambi generazionali: inizi a vedere i ragazzi quando hanno 13-14 anni, vengono qui a mangiare il panino in bici o col motorino, poi viene l’età della macchina, li vedi di meno, magari la Domenica d’Estate preferiscono passarla al mare, capisci che hanno allargato il raggio d’azione, poi trovano la morosa e i passaggi da Ceo si fanno ancora più radi, poi si sposano e non li vedi più. E’ così che funziona!”.


“E questo è l’unico posto in cui venivano a mangiare i morti!” a Ceo non sembra vero di vedere le nostre facce ansiose di spiegazioni dopo questa affermazione lanciata tra capo e collo. “Si, avete capito bene. Dovete sapere che questo era il posto dove le truppe americane di stanza in Italia venivano a provare le manovre coi missili nike. Si esercitavano e tutti avevano un tesserino di riconoscimento durante le prove. Chi ‘periva’ in battaglia durante le esercitazioni doveva togliere il tesserino ed era libero di venire qua da Ceo a mangiare spagheri come chiamavano loro gli spaghetti. Mai visti dei cadaveri con tanto appetito!”
“E’ stato un gran periodo anche quello degli americani” prosegue eccitato Ceo “alla fine di ogni pasto lasciavano, uno, due o anche tre dollari americani sotto al piatto, per loro costumava così. Quando si concludevano le esercitazioni portavano via tutto lasciando una pulizia perfetta ma ‘dimenticavano’ sempre delle scatolette con le loro razioni personali (una di queste scatolette è ancora conservata in osteria, ndr) dentro si potevano trovare sigarette, carne, cioccolata. Appena se ne andavano era il turno dei ragazzini che abitavano qua intorno che provvedevano a fare le ultime pulizie di quel che avevano ‘dimenticato’ i soldati”.

“Anche il Generale Dozier, quello che rapirono negli anni ’80 a Verona (si parla del comandante NATO nell’Europa meridionale James Lee Dozier, rapito e tenuto sequestrato per circa un mese dalle Brigate Rosse a cavallo tra il 1981 e il 1982, ndr), veniva sempre qua da noi a prendere il cappuccino, arrivava con l’elicottero che atterrava qui davanti e poi andava a seguire le esercitazioni” (continua...)


lunedì 23 dicembre 2013

TRA L’ARGINE E LA RIVA - Il favoloso racconto della vita di Ceo Pajaro - Parte 1

In occasione delle festività natalizie Fuori Luogo vi ripropone in 3 puntate l'intervista integrale a Ceo Pajaro già apparsa nella nostra passata versione cartacea.
E' un modo per condividere una storia che ci unisce e ci identifica con la serenità che contraddistingue un augurio sincero.
Buona lettura dalla Redazione di Fuori Luogo. 



Per spiegare ad uno straniero il significato del termine ‘luogo’ potremmo utilizzare la definizione pulita ed efficace scritta sul dizionario. Oppure azzardare un’operazione meno immediata ma certamente più affascinante: che se in un determinato posto geografico, oltre a precise caratteristiche fisiche, riesci a riconoscere anche un umore ed un clima generati “naturalmente” da chi questo posto lo abita, allora avrai riconosciuto ciò che potresti descrivere con gli stessi aggettivi che si possono utilizzare per descrivere una persona. Potremmo poi prendere lo straniero per mano ed accompagnarlo in osteria da Ceo a mangiare un panino e bere una spuma o una birretta. Oltre a comprendere con poco sforzo il significato del termine, si porterà a casa il ricordo di un’esperienza da poter raccontare perché le storie che profumano di vita conservano il loro profumo anche in lingue differenti. 



IL LOCALE

A chi è stato almeno una volta da Ceo Pajaro prendendosi il giusto tempo di guardarsi attorno, non sarà sfuggito che, lì dentro, anche le sedie avrebbero una storia interessante da raccontare. Quando proponiamo a Ceo ed al figlio Nano di regalarci un po’ di tempo per ricordare la loro storia, che è anche la storia di un pezzo del nostro paese e della nostra Brenta, le parole non fanno nessuna fatica ad uscire.
Ed allora si parte. Si parte dal principio: “Raccontaci Ceo, da dove è iniziato tutto?” e Ceo racconta: “Ero giovane, era il 1949. Qui il posto era proprio bello, mi piaceva. Prima che arrivassi io, qua dove siamo adesso passava la ferrovia che portava la ghiaia dai cantieri del Duca Camerini di Piazzola alla stazione di Carmignano, e poi da lì a tutta l’Italia. Chiesi se si poteva costruire una casa e mi dissero che sarebbe stato troppo pericoloso, che l’acqua del Brenta prima o poi l’avrebbe portata via. Non mi importò, non li ascoltai: ebbi il permesso dal comune e costruii questa casa, avevo 23 anni allora. Nato l’8 Ottobre del ’26 anche se le carte dell’anagrafe riportano la data del 9”.
“E l’osteria?” chiediamo. “Dal primo giorno che venni ad abitare aprii l’osteria, anche se allora non si trattava proprio di osteria ma di un circolo del dopolavoro in cui i clienti dovevano avere una tessera per poter “consumare”. Non si poteva aprire un’osteria per problemi di bacino di popolazione. A quel tempo c’era il locale che oggi si chiama Malatesta che occupava già la licenza nella nostra zona per cui fino al ’69 non saremmo stati osteria”.


“Appena aperti qui preparavamo panini, le morette del Brenta fritte con la polenta che pescavamo con la moscaròea: una trappola per mosche che avevamo adattato alle nostre esigenze. La si posava sdraiata in riva al fiume in maniera che l’acqua la riempisse per metà, ci mettevamo un tappo e, sul fondo, della farina gialla che serviva da esca. Quando il pesce entrava non ne usciva più e quando la moscaròea era piena di pesce ci bastava tirarla su e mettere il pescato nel crivèo con la farina e dopo a friggere”. “A quei tempi funzionava a un franco alla passùa: quando uscivi dal locale, anche solo per pisciare, il contratto si scioglieva ed al rientro andava rinnovato!”. Il cibo a chilometri zero e l’happy hour di quarant’anni fa…
Penso ai rimpianti di chi è troppo giovane e non ha potuto vivere l’osteria a quella maniera, nel frattempo il racconto prosegue: “il pesce del Brenta abbiamo potuto mangiarlo fino al ’91, poi le cose sono cambiate, troppe concerie che, a monte, scaricavano e inquinavano l’acqua e il pesce spariva tutto, gli ultimi anni servivamo solo pesce di mare e, dal 2003 abbiamo deciso di smettere anche col servire pasti, troppo, troppo lavoro, no se riussiva a ‘ndarghine fòra!”.
Chiediamo di slancio: “Cos’altro è cambiato qui attorno da quando c’è l’osservatorio dell’osteria?” “Uh, un sacco di cose: dal modo in cui si trascorre la Pasquetta in Brenta ai mutamenti della fauna, uccelli e pesci soprattutto. Della Pasquetta mi ricordo cos’era negli anni ’60 e ’70, quando le famiglie venivano ad aprire la bella stagione in Brenta mangiando ovi e fugassa accompagnati da vino bianco. E com’era bello giocare a Rugolo – ricorda Nano – bastava una tavola di quelle che usano in edilizia, un mucchio di sabbia e delle uova che coloravamo cuocendole con ortica (per farle venire verdi) o altre spezie. Si facevano rotolare le uova su questa tavola che sistemavamo in pendenza e finivano nella sabbia. Chi lanciava l’uovo dopo di te, se toccava il tuo, se lo poteva portare a casa. I più fortunati erano quelli che potevano permettersi uova di oca o di faraona perché non si rompono mai…”.
“Dal punto di vista faunistico i cambiamenti sono stati, se possibile, anche di più: in questo periodo vediamo tante specie di uccelli, diversi però da quelli di una volta. La bigia padovana, ad esempio, non c’è più da almeno 10 anni credo, per colpa delle cornacchie e delle gazze che se le sono mangiate tutte.
Poi adesso abbiamo gli scoiattoli che prima non avevamo mai visto, vanno da una pianta all’altra ed è bello guardarli correre dalla finestra. Ce ne sono sia di quelli neri che di quelli rossi. Poi ci sono i picchi che senti fare – tac tac tac – sugli alberi: quello normale e quello verde. Vi è mai capitato di avere l’impressione che qualcuno vi rida dietro quando siete seduti fuori sotto la pergola? Quello è il verso del picchio verde. Gli uccelli tradizionali come il martin pescatore non sono mai mancati, mentre di nuovi sono arrivati i gabbiani che prima non c’erano. Cucaine e rondoni, invece, non se ne vedono più”.
“Se guardiamo ai pesci, siamo in un momento fortunato: sono tornati tutti a parte lo strijo che non c’è più da quando hanno fatto la diga di Carturo che gli impedisce di risalire fino a qua e, se faranno altre briglie nel fiume come sembra sia in progetto, allora si vedranno altri numerosi cambiamenti. Per adesso la pesca va forte anche se, rispetto a una volta, c’è meno di tutto, meno pesci, meno uccelli, di conseguenza meno pescatori e meno cacciatori.”    
E se semo anca divertii in sti ani savìo: dal ’71 al ’73 abbiamo organizzato la sagra della pasquetta, di fianco l’osteria c’erano perfino le giostre; e anche un paio di feste dell’Unità, per due anni consecutivi sempre nello spazio dietro il locale”.
E anca al giorno d’oncò e storie da contare no manca! Ogni mattina, Lunedì escluso, si parte qualche minuto prima delle 7 col primo caffè al primo cliente che è sempre Callisto Mariga, e fino alle 7 di sera è lunga, specialmente durante la stagione calda” (continua...)

mercoledì 18 dicembre 2013

LE LUCI DI NATALE - Buon Natale

di Fabio Marcolongo


Quando passeggio per Carmignano attraverso questa nebbia fitta e umida, provo una strana sensazione. Il freddo mi punge il viso, l’unica parte del corpo che non è avvolta dalla lana calda e soffice. 
La mia attenzione viene catturata dalle luci natalizie di via Marconi e penso: «Come sono cambiati i tempi. Una volta mi sembra che fossero tutte rosse e gialle. Adesso, invece, sono blu e gialle. Così sono più belle, “fanno” più “atmosfera di Natale”».

Incrocio una coppia di mezza età, non ci conosciamo, ma loro sorridono e mi dicono: «Buonasera». Ricambio il saluto e il sorriso. Mi sento felice. Poi, la moglie sussurra al marito: «Hai visto le luminarie? Sono più belle blu e gialle che non rosse e gialle come una volta! Il blu “fa” più Natale». Lui è d’accordo.

Passo vicino alle poste e vedo un gruppo di adolescenti che ridono e scherzano tra loro. Hanno dei petardi. Immagino che stiano facendo le “prove generali” per l’ultimo dell’anno, o meglio, una sorta di “primarie” per scegliere democraticamente quale sarà il “botto” migliore, quello da esplodere allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre. Mi chiedo: «Chissà se per esprimere la loro opinione hanno pagato due euro a testa, oltre al costo dei petardi». E poi un’altra domanda: «Perché proviamo felicità o eccitazione quando sentiamo queste “esplosioni”?». Non ho risposte. Non ho una risposta neanche al perché associo il costo, l’”utilità”, la necessità di ascoltare il rumore di un petardo, al problema della crisi economica. Abbandono il pensiero, lo lascio ingarbugliato nella nebbia. Oggi non voglio che nella mia testa ci siano idee negative. Voglio sentirmi felice.

Proseguo verso casa e incrocio una coppia piuttosto giovane, non ci conosciamo. Stavolta accenno io un saluto per primo, sorrido e dico: «Buonasera», ma loro non ricambiamo. Si limitano a guardarmi per un istante con un’espressione che sembra dire: «E questo chi è ? Manco lo conosciamo e ci saluta?».
Sorrido tra me, e penso: «Come sono cambiati i tempi. Chissà se passando per via Marconi noteranno che le luci di Natale non sono più rosse e gialle come una volta, ma sono blu e gialle».
Non vi conosco, comunque, in quel saluto c’era il mio augurio, perché anche voi passiate un buon Natale. Mi basta questo per sentirmi felice oggi.

mercoledì 11 dicembre 2013

CECITA' - SARAMAGO

di GP F1


“Cecità” è più di un libro. 
Con esso Jose Luis Saramago non ha narrato solamente una storia. Saramago ha scavato in profondità, nelle pieghe del genere umano per creare un racconto che può essere considerato una critica soffocante nei confronti della società e del senso del vivere comune. In un’ipotetica città dal nome sconosciuto, inizia a propagarsi un virus che a macchia di leopardo colpisce chiunque ne entri in contatto. Le vittime si accorgono subito di essere state colpite da questo male perché istantaneamente, e senza motivo apparente, non sono più in grado di vedere. Gli occhi non funzionano più per il semplice fatto che hanno incrociato altri occhi già colpiti da questa malattia. Le immagini vengono sostituite da un’uniforme massa bianca che getta nel panico e nel disorientamento più totale chi fino a pochi istanti prima stava vivendo la sua normalità. Una normalità che cessa immediatamente di esistere. La situazione è allarmante e per questo motivo non va assolutamente trascurata. Entra in azione la macchina burocratica che tenta di spegnere quello che viene definito “il mal bianco”. Si procede attuando scelte drastiche e risolute: chi è cieco e chi sta per diventarlo deve essere isolato presso strutture ed edifici destinati fino a quel momento ad altre funzioni. Scatta la quarantena. La burocrazia parla un “politichese” che altro non serve se non a celare la vera gravità della situazione. Le persone si svuotano della loro identità ed il mondo si capovolge. All’interno di un ex manicomio 400 esseri viventi sono costretti ad agire non più in base alla loro coscienza ma al loro animalesco spirito di sopravvivenza. Manca la vista e quindi manca la capacità di controllo e di osservazione. Chi agisce lo fa solo ed unicamente per restare vivo e non essere raggirato o derubato da chi usa la sopraffazione per ottenere un beneficio. Non si agisce più per crearsi un futuro ma ci si adopera per sopportare il presente in una società in cui tutto gira attorno all’ancestrale principio dell’ “Homo homini lupus”. Gli ideali su cui si fonda una società civile non esistono più: l’idea di coscienza collettiva, di bene comune, di rispetto e di collaborazione reciproca vengono calpestati perché, in una società che non vede, primeggia chi è più forte e più scaltro. Sopravvivendo seguendo solamente la legge del più forte, gli uomini si ritrovano sperduti e in lotta tra di loro. Saramago è geniale nell’evidenziare tutta una serie di meccanismi per i quali, in assenza di un sentire comune, regole ferree e brutali continuano a generarsi. Così, in un microcosmo come quello nato all’interno del manicomio, i gruppi di ciechi si dividono e si scontrano per la supremazia in un ambiente putrefatto dall’assenza di regole. Senza la vista, le sensazioni descritte coinvolgono gli altri sensi. E le descrizioni sono così precise e dettagliate che il lettore viene intrappolato all’interno di una lotta asfissiante ed intestina la cui conclusione rimane incerta fino all’ultimo momento.
Impossibilitati a vedere gli uomini si trovano con le spalle al muro: rassegnarsi o continuare a sperare in una miracolosa guarigione che però tarda a manifestarsi?
Il ritmo del racconto è incalzante, lo stile di scrittura è unico. Saramago, infatti, utilizza solo due elementi di punteggiatura: il punto e la virgola. Non esistono virgolette, non esistono due punti, non esiste il punto e virgola. E’ sorprendente come la lettura non perda fluidità ma, al contrario, venga agevolata da questo singolare accorgimento stilistico.
Dalla prima all’ultima pagina sembra di leggere un continuo flusso di coscienza che, senza soluzione di continuità, coinvolge tutti i protagonisti della storia. Vi lascio con una frase che Saramago sceglie di utilizzare per iniziare il racconto: “ Se puoi vedere, guarda. Se puoi guardare, osserva”.

lunedì 2 dicembre 2013

LA CLASSIFICA DELLE 5 COSE DEL MIO PAESE CHE NON DIGERISCO

di Beniamino Fortunato


Al 5° posto “STASERA NON SONO SU FACEBOOK SONO ALL’ESTATE CARMIGNANESE”: perché segnala un pregiudizio superficiale ed abusato. Trascorrere con intelligenza del tempo sui social network utilizzando i mezzi che il tuo tempo ti concede non potrà far più male di 4 prosecchi e 2 mojito ai gazebo estivi

Al 4° posto L’INVERSIONE DI TENDENZA DELLA MUSICA: perché ormai da qualche anno nascono sempre meno band musicali. Quello che è stato uno dei motori della creatività e della socialità giovanile in paese fin dagli anni ’60 sta pericolosamente scemando. Non ci sono spazi accessibili per provare e ci si sta dimenticando del valore che ha la musica per chi cresce

Al 3° posto IL PROBLEMA CHE NON SAPPIAMO RISOLVERE: l’orgoglio di vivere in un territorio di campagna non comprende l’aria irrespirabile che dal cavalcavia ci tiene in ostaggio da trent’anni. Come ci si può giustificare di non essere mai riusciti a far pesare le proprie comuni priorità di fronte all’irriguardoso interesse di pochi?

Al 2° posto CHI AMMINISTRA COI REGALI: intendo quel particolare sistema di fare apparire i lavori pubblici e i servizi come il regalo di un amministratore ai cittadini. Mi stanno bene i regali se li fai coi tuoi soldi, se li fai coi soldi di tutti non vanno presentati come regali. Le priorità e i reali bisogni andrebbero individuati assieme e non supposti con meccanismi sconosciuti  

Al 1° posto LE BANDIERE SCIUPATE FUORI DALLE FABBRICHE CHIUSE: perché se passi lungo la statale loro sono lì che non hanno nemmeno più la forza di sventolare. E ti viene da pensare a dove stia adesso tutta la frustrazione di chi le ha appese, e ti viene da pensare a come andrà, a quando finirà, a come si potrà rimediare a tutto questo e di chi ci si potrà ancora fidare.
Non si può passare la vita a raccogliere se prima se non hai seminato, ecco, io credo che ci si potrà ancora fidare solo di chi semina.