martedì 1 ottobre 2013

TUTTO UN ALTRO CALCIO: OBDULIO VARELA, LA DIGNITÀ DEL CAPITANO


di Roberto Pivato

«Se adesso dovessi giocare di nuovo quella finale, mi segnerei un gol contro, sissignore».

Così Obdulio Jacinto Muiños Varela, conosciuto semplicemente come Obdulio detto “el Nefe” (il nero) e “el Jefe” (il capo), rispondeva ad un sorpreso Osvaldo Soriano nella celebre intervista rilasciatagli nel 1972 e pubblicata in Futbol. Ecco, se volete un dipinto quanto mai attendibile e veritiero del grande capitano della nazionale uruguayana campione del mondo nel ’50 leggetevi Soriano. Di meglio non troverete. D’altra parte quella partita tra Brasile ed Uruguay al Maracanà di Rio de Janeiro è rimasta nella leggenda del calcio. Così come è rimasto nel mito uno dei suoi maggiori protagonisti: Varela appunto. Su di lui e su quella gara sono fioriti una miriade di aneddoti e racconti tra romanzo e realtà. Dai dirigenti uruguagi che si sarebbero accontentati di perdere 4-0, passando per Obdulio che afferra la monetina lanciata dall’arbitro e lascia come consolazione ai brasiliani il calcio d’inizio, fino all’epilogo con un imbarazzato Jules Rimet che consegna, inaspettatamente, la coppa a Varela. In mezzo il celeberrimo episodio del Jefe che dopo il vantaggio verde-oro (a proposito: fino a quel momento la casacca ufficiale del Brasile era bianca, dopo quella sconfitta verrà cambiata in quella giallo-verde che vediamo tutt’oggi), ad inizio ripresa, raccoglie palla e si porta a centrocampo lentamente, protestando col direttore di gara senza motivo, con l’unico scopo, ben raggiunto, di raffreddare l’entusiasmo incontenibile di giocatori e tifosi locali. L’Uruguay ribalterà il risultato vincendo 2-1, aggiudicandosi il mondiale del 1950 e gettando un intero paese nello sconforto.

Potete trovare facilmente il racconto dettagliato di quell’incredibile finale (che tale non era nel vero e proprio senso della parola, poiché si giocava un girone di finale all’italiana a quattro squadre di cui il match conclusivo, e determinante, era proprio Brasile-Uruguay), con le gesta epiche di capitan Varela.

Quello che qui vorremmo mettere in risalto è l’umanità di questo grande campione. Nato a Montevideo il 20 settembre 1917 visse sempre in povertà. Nemmeno il trionfo mondiale gli portò grandi vantaggi economici: «L’unica cosa che abbiamo ottenuto vincendo quel titolo è stato dar lustro ai dirigenti dell’Associazione Uruguayana di Calcio. Loro si sono fatti consegnare le medaglie d’oro e ai giocatori ne hanno date altre d’argento». El Nefe aveva sempre mal tollerato la corruzione che già serpeggiava nel mondo del calcio e i tanti sciacalli che si arricchivano con la fatica altrui. Mal sopportava inoltre, ogni forma di comando dall’alto e l’arte dell’apparire: si narra che non stringesse mai la mano all’arbitro poiché la gente non pensasse che volesse ruffianarselo e che non abbia mai posato in una foto ufficiale, perché lui era un calciatore, non un modello. Era un leader, un giocatore dal carisma straordinario, che riusciva a infondere coraggio ai compagni anche nei momenti più difficili.
Ma era anche un uomo portato naturalmente a stare dalla parte dei più deboli, degli sconfitti: «Quella sera sono andato col mio massaggiatore a fare un giro nei locali per berci qualche birra […] Tutti stavano piangendo. […] D’improvviso vedo entrare un tizio grande e grosso che sembrava disperato. Piangeva come un bambino e diceva: “Obdulio ci ha fottuti” e piangeva sempre di più. Io lo guardavo e mi faceva pena. Loro avevano preparato il carnevale più grosso del mondo per quella sera e se l’erano rovinato. A sentire quel tizio, gliel’avevo rovinato io. Mi sentivo male. Mi sono accorto che ero amareggiato quanto lui. Sarebbe stato bello vedere quel carnevale, vedere come la gente se la spassava con una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto e non avevamo ottenuto niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava  confronto a tutta quella tristezza?». Le parole di Obdulio in ricordo della sera della finale vinta ci consegnano l’immagine di un uomo amareggiato che il suo successo abbia gettato nello sconforto un paese intero. Avrebbe preferito vedere la grande festa carioca piuttosto che essere causa e partecipare della loro mestizia.

Jules Rimet consegna la Coppa a Varela


Varela morirà il 2 agosto del ’96 a Montevideo, poverissimo, dopo aver vissuto lontano dai riflettori, facendo perfino il parcheggiatore. Se ne andrà con l’amarezza di aver dato tutto per una causa che gli si è rivelata indegna: «Sono molto pentito di aver giocato. Se dovessi ricominciare la mia vita da capo, il campo di gioco non lo degnerei neanche di uno sguardo. No, il calcio è tutto uno schifo. Quando hanno provato a corrompermi non mi sono né arrabbiato, né li ho buttati fuori a calci, né li ho denunciati. Ho detto di no, che si cercassero uno con meno orgoglio di me. [...] Non vale la pena impegnarsi la vita in una causa che è sudicia e corrotta».

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