giovedì 7 febbraio 2013

IL MIO MESE VICINO ALLA GUERRA





In Siria con Paolo che ha visto ciò che aveva soltanto sentito raccontare

La Redazione di Fuori Luogo ha incontrato Paolo Dalle Tezze, trentenne di Carmignano progettista di software che, per lavoro, si sposta spesso in paesi lontani. A cavallo tra Maggio e Giugno di quest’anno ha avuto la possibilità di trascorrere un mese in un paese in guerra, la Siria.
Una guerra civile tra l’esercito del dittatore Al-Assad e i civili insorti sull’onda della Primavera Araba, che ha provocato finora decine di migliaia di morti soprattutto tra i civili e a cui la comunità internazionale non è ancora riuscita a dare risposta, messa in scacco dal veto di Cina e Russia ad un intervento armato.
Abbiamo raccolto l’immagine portata a casa da Paolo di questa nazione che, geograficamente e culturalmente, è porta naturale tra l’Occidente e l’Oriente del mondo. 

Paolo, com’è arrivata nella tua vita la Siria?
Mesi fa arrivarono in azienda due ordini per lavori da iniziare da lì a breve: il primo in Messico ed il secondo proprio in Siria. Ero assegnato per il lavoro in Messico, un giorno però confessai al mio collega che non ero proprio interessato ad andare in Messico e lui, con mia estrema sorpresa, mi confessò della sua infelicità all’idea di andare in Siria. Non persi l’occasione e gli proposi uno scambio di lavori che lui accettò molto volentieri. Così ho incontrato questo paese di cui avevo letto nei libri di Rafik Schami

In Siria dal 2011 c’è una guerra civile di cui sentiamo spesso parlare nei media, hai pensato anche a questo prima di andare la?
Si, ci ho pensato. Tra l’altro il nostro cantiere era proprio nei pressi di Homs, la città più colpita dagli scontri. Per questo si è deciso di spostarci a Damasco per dormire; è la capitale del paese e la situazione lì era più calma, ma ciò ci costringeva ogni mattina ed ogni sera a fare un’ora e mezza di macchina per andare dal luogo di lavoro al posto che ci ospitava per la notte

L’hai vista mai la guerra?
La guerra l’ho riconosciuta lungo le strade che percorrevamo ogni giorno in cui i militari armati si nascondevano dietro le dune di sabbia. E nei posti di blocco che periodicamente ci chiedevano i documenti e controllavano le nostre borse fatto, questo, che mi ha portato a riflettere sul rapporto che si costruisce tra i colleghi di lavoro in situazioni come queste dove il comportamento eccessivo di qualche tuo compagno nei confronti dei militari può mettere nei guai anche te: si sviluppa così, per un limitato periodo di tempo, un legame tra persone, anche di nazionalità diverse, che per certi versi considero più stretto dei legami che si generano in un matrimonio

Com’è diversa la guerra che si sente raccontare nei media da quella che si può vedere con gli occhi?
Vedi, noi eravamo consapevoli della situazione sociale in cui ci trovavamo ma non c’era in nessun modo la sensazione di pericolo vivo presente, si trattava di un pericolo potenziale, di una situazione che si sarebbe potuta trasformare da lì in breve in grave e per questo motivo il nostro era uno stato di allerta costante e avevamo sempre pronto un piano di evacuazione che ci avrebbe condotto al confine col Libano.
Certo, se qualcuno si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato anche il Pentagono diventa un luogo pericoloso, ma in quei miei 32 giorni non ho mai percepito la sensazione di pericolo. Se si esclude la presenza militare avevo l’impressione di vivere in un luogo lontano anni luce da quello che facevano vedere le notizie diffuse in occidente.
E’ per questo che definisco esasperato il modo con cui si fa informazione da noi, e l’unico modo che ho avuto per comprenderlo è stato quello di trovarmi lì e sentire che da casa i miei cari temevano per me, di riflesso alle notizie sentite in televisione, mentre nel mio mese siriano ho avuto anche modo di fare il turista andando a visitare il suck antico (il tipico mercato di strada), la moschea di Omayad nella città vecchia di Damasco e anche di cenare in un ristorante in centro, accompagnato da un collega siriano.

Hai avuto modo di scambiare impressioni con cittadini siriani?
Si, ed è con loro che ho capito cosa significhi vivere sotto un regime.
Non tanto dalle loro parole quanto dai loro silenzi. Quando ho provato a far emergere opinioni politiche o sociali mi sono trovato di fronte a dei muri di diffidenza e timore. Se si esclude una breccia aperta quasi alla fine della mia esperienza con un collega del posto che mi ha raccontato di essere stato sotto interrogatorio per 14 giorni consecutivi perché sospettato di collaborare con gli insorti, tutti gli altri che ho provato ad avvicinare hanno mostrato soprattutto diffidenza e timore di essere “ascoltati”.
Facile comprenderlo per me dopo aver avuto la dimostrazione pratica di come tutti i telefoni fossero sotto controllo (suonavano liberi anche se dall’altro capo la comunicazione era stata interrotta) e di come l’informazione pubblica fosse sotto stretto controllo delle forze governative.

Nei tuoi viaggi di lavoro c’è stato un paese che più degli altri ti ha colpito positivamente?
Ho sempre avuto una predilezione per l’est del mondo e le mie esperienze si sono svolte principalmente in paesi dell’Asia. Tra tutte, la mia esperienza migliore è stata quella cinese, vissuta in una città di 6 milioni di abitanti quasi sconosciuta in occidente!
Ho visto persone sorridenti, felici perché serene e capaci di godere di ciò che hanno, tanto o poco che sia. Non è questa l’idea che ritrovo nell’immaginario che si ha in Italia della Cina e mi fa piacere poter portare la  mia esperienza a sostegno di un possibile cambio di opinioni.

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