lunedì 16 settembre 2013

BICI TENDENTE ALL'INFINITO

di GP F1


Dopo un paio d’anni di pura sedentarietà ciclistica, convinto da un paio di amici ad inforcare nuovamente la mia Bianchi da corsa,  ho trascorso l’estate a comporre quella che è poi diventata una corsa a tappe che attualmente sta ormai giungendo al capolinea visto l’inesorabile e lento avvicinarsi dell’autunno. 
Partito a fine maggio col solo ed unico intento di divertirmi pedalando, non ho poi esitato un’instante ad aumentare progressivamente il chilometraggio e la frequenza delle uscite settimanali. Con il passare delle settimane, la pancia si è sgonfiata, il mio peso si è assestato e le gambe, che prima sembravan arrancare, hanno iniziato a girare e a sopportare con più fluidità lo sforzo a cui le sottoponevo. 
Da questo punto di vista, infatti, la bici è strana ed affascinante al tempo stesso: sei solo alla guida di uno strumento che si ciba della tua fatica, ma sei anche il solo a decidere qual è, in quel preciso momento, il tuo limite massimo. Così, se a maggio Breganze mi sembrava il punto estremo che potevo raggiungere, già a giugno avevo un’opinione completamente diversa. 
Aggiungendo chilometri su chilometri, la mia scala di paragoni si è sempre più ampliata e ciò che prima ritenevo irraggiungibile si è avvicinato sempre di più, diventando così alla  mia portata. 
La bici è lo strumento con il quale capiamo quanto personali e soggettivi siano i concetti di velocità, distanza e durezza del percorso che spessissimo compaiono nei discorsi di chi pratica questo sport. E quasi per esorcizzarla, tra i ciclisti non si parla mai di fatica. Si dà per assodato che una determinata salita è dura, che un determinata discesa è impegnativa, che una determinata strada è più o meno trafficata. Ma non si descrive mai un percorso come faticoso perché il concetto di fatica è un concetto troppo personale e soggettivo. Non esiste un misuratore universale di fatica. E quindi, rovesciando la medaglia, non esiste un limite ad essa.
Abitare a Carmignano, per un appassionato di bici, è una goduria: in una quarantina di minuti si possono raggiungere incantevoli località pedemontane dalle quali si possono attaccare innumerevoli salite alle quali, dalla notte dei tempi, è stato affibiato dagli stessi ciclisti un nomignolo od un soprannome.  
Così se per rompere il ghiaccio in salita “E Venexiane” (Mason, Molvena) sono risultate essere il mio primo test importante,  il “Mostacin” e “la Rosina” sono state le mie prime scalate verso il cielo, “Rubbio da Gomarolo” la mia prima gita fuoriporta per testare la gamba, “Lusiana per Monte Corno” (Calvene)” il mio primo “tappone dolomitico” e “San Luca” (Marostica)  è progressivamente diventata la mia palestra d’allenamento. Più avanzava l’estate più coraggio trovavo per testare nuove rampe e visitare nuove località. Con l’aiuto delle cartine di  www.salite.ch (se digitate San Luca compaiono nove modi diversi per raggiungere la frazione di Marostica!) e la street view di googlemaps mi sono creato nuovi itinerari che mi hanno permesso di conoscere in anticipo e con esattezza ciò che mi aspettava. E per ingannare completamente la fatica, quando la strada cominciava a salire, attaccavo la mia playlist. Così, per strappi corti e violenti ( tipo “la salita del Mago” che collega Molvena a San Luca)  c’era il tormentone di “Blurred Lines” di Robin Thicke (ritmo e vitalità), “Shine on” di Tony T. (anche in montagna pensare a un po’ di mare e onde fa sempre bene) o “Make it Bun Dem” di Skrillex; per i passaggi più panoramici e meno impegnativi sceglievo l’album “Padania” degli Afterhours o il brano “Five Years” di David Bowie. “Govinda” dei Kula Shaker lo utilizzavo per le tirate in pianura mentre l’album che più utilizzavo per avvicinarmi alla meta è dei “The Nationals” e si chiama “High Violet”.
A metà agosto ho accettato la sfida che silenziosamente dall’orizzonte mi lanciava quel gigante imponente del Monte Grappa. La salita da Romano d’Ezzelino, anche se molto lunga (28 km) è la più “regolare” e panoramica. 
E’ stata la mia ultima uscita lunga e per me ha rappresentato la chiusura di un cerchio: era da molto tempo, infatti, che mi ero prefissato di raggiungere il Rifugio Bassano ed il vicino monumento ai caduti del Grappa. E’ una montagna amata ed odiata al tempo stesso perché la strada è lunga, il tempo può cambiare velocemente e non ci sono tanti punti di ristoro (zero fontanelle lungo la strada). Lungo i primi tornanti, dopo aver selezionato come sottofondo musicale l’album “Sullo Zero” di Giulio Estremo Casale, mi sono affiancato ad un ciclista che la stava affrontando per la sesta volta nella sua vita. Praticamente un GPS umano che conosceva a memoria ogni tratto dell’ascesa. Ci ho messo circa due ore a completarla e non vi nascondo che gli ultimi dieci chilometri sono i più lunghi ed infiniti. 
E per ritornare al discorso della soggettività della fatica fatto in precedenza vi racconto un aneddoto capitatomi proprio lungo gli ultimi chilometri con il quale concludo questo mio intervento: sono a tre chilometri dalla cima, “Are you Experienced” di Jimy Hendirix ha sostituito la voce poetica di Casale. Nelle orecchie la distorsione della chitarra, nelle gambe l’incombente necessità di raggiungere la meta. Mi gusto il panorama per distrarre la cavalcante sensazione di fatica. Guardo a destra e mi affianca un ciclista che secondo me è frutto della mia stessa immaginazione: la sua bici è completamente priva della forcella anteriore. Gli domando se lui è reale, lui ride, io scuoto la testa, lui ride e mi da appuntamento al Rifugio. Si sta facendo il Grappa in equilibrio sulla sola ruota posteriore. Penso a quel brano di Marracash, rido e mentalmente storpio le parole di quel verso che per me diventa “ A fare le penne davanti al Rifugio Bassano ed il Rifugio Bassano muto!!..”. 
La fatica si attenua, vedo il rifugio, arrivo e parcheggio. 

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