lunedì 30 dicembre 2013

TRA L’ARGINE E LA RIVA - Il favoloso racconto della vita di Ceo Pajaro - Parte 2

I CLIENTI

“E la gente che viene qui, anche quella è cambiata negli anni?”
“I primi clienti con cui abbiamo iniziato a lavorare erano i casonieri, cioè gli abitanti della zona dei Casoni di Fontaniva che lavoravano con la ghiaia del Brenta. Poi col tempo sono arrivati gli operai del vaglio di Vaccari e di quello di Finesso, venivano qua per pranzo e spesso si fermavano anche a fine giornata, non si poteva però parlare di tante persone”.


“Appena aperto, si lavorava quasi esclusivamente con la bella stagione: da Pasquetta all’arrivo dell’Autunno, così nella stagione fredda noi si viveva con l’oseanda, una rete tra due alberi che avevamo montato dietro l’osteria (le foto dell’oseanda sono appese al muro del locale, ndr). Con questa si prendevano gli uccelli vivi e li si poteva vendere ai cacciatori come richiamo per la caccia. Oppure li vendevamo ad un certo Signor Coltro da Vicenza che poi riforniva le osterie dei Colli Berici. Era carne pregiata perché non veniva impallinata, li si uccideva schiacciandogli la testa cosicchè la carne rimanesse più ricercata”.
“Negli anni ’60 arrivarono le auto, si potevano percorrere tragitti più lunghi e i clienti iniziarono ad arrivare da più lontano, anche da Vicenza. E’ stato quello il periodo in cui abbiamo ottenuto il permesso di organizzare il tiro al piattello qua, dietro l’osteria. Si poteva sparare fino alle 11 di sera e i cacciatori non si perdevano la possibilità di tenersi allenati durante i periodi di inattività”.
“Negli anni c’è stato anche il momento delle colonie, quando l’acqua arrivava fino a dove oggi si può vedere la chiavica di Camerini, cioè a meno di 100 metri da qua. C’erano almeno 5 metri di profondità e i ragazzetti di Carmignano venivano qui a passare le giornate estive. Poi iniziarono a scavare in Brenta, l’acqua si abbassò e il bacino si seccò…”. 


“Secondo me” racconta ora Nano, “il grosso cambiamento per noi fu negli anni ’80, quando la Busa de Giaretta iniziò ad essere frequentatissima ed anche qua la gente arrivava a frotte. Fu il momento in cui si passò da una clientela di adulti (gli operai, ndr) a una di giovani che arrivavano con tutti i mezzi, moto, motorini, biciclette, anche col treno: c’erano ragazzi che partivano da Venezia col treno per venire a fare il bagno in Busa, scendevano in stazione a Carmignano e poi se la facevano a piedi fin qua. Che periodo!”.
“Al giorno d’oggi si vive in parte ancora di quei gloriosi periodi degli anni ’80. La gente viene numerosa ma non come all’epoca. La cosa bella che ci capita è riconoscere chiaramente i ricambi generazionali: inizi a vedere i ragazzi quando hanno 13-14 anni, vengono qui a mangiare il panino in bici o col motorino, poi viene l’età della macchina, li vedi di meno, magari la Domenica d’Estate preferiscono passarla al mare, capisci che hanno allargato il raggio d’azione, poi trovano la morosa e i passaggi da Ceo si fanno ancora più radi, poi si sposano e non li vedi più. E’ così che funziona!”.


“E questo è l’unico posto in cui venivano a mangiare i morti!” a Ceo non sembra vero di vedere le nostre facce ansiose di spiegazioni dopo questa affermazione lanciata tra capo e collo. “Si, avete capito bene. Dovete sapere che questo era il posto dove le truppe americane di stanza in Italia venivano a provare le manovre coi missili nike. Si esercitavano e tutti avevano un tesserino di riconoscimento durante le prove. Chi ‘periva’ in battaglia durante le esercitazioni doveva togliere il tesserino ed era libero di venire qua da Ceo a mangiare spagheri come chiamavano loro gli spaghetti. Mai visti dei cadaveri con tanto appetito!”
“E’ stato un gran periodo anche quello degli americani” prosegue eccitato Ceo “alla fine di ogni pasto lasciavano, uno, due o anche tre dollari americani sotto al piatto, per loro costumava così. Quando si concludevano le esercitazioni portavano via tutto lasciando una pulizia perfetta ma ‘dimenticavano’ sempre delle scatolette con le loro razioni personali (una di queste scatolette è ancora conservata in osteria, ndr) dentro si potevano trovare sigarette, carne, cioccolata. Appena se ne andavano era il turno dei ragazzini che abitavano qua intorno che provvedevano a fare le ultime pulizie di quel che avevano ‘dimenticato’ i soldati”.

“Anche il Generale Dozier, quello che rapirono negli anni ’80 a Verona (si parla del comandante NATO nell’Europa meridionale James Lee Dozier, rapito e tenuto sequestrato per circa un mese dalle Brigate Rosse a cavallo tra il 1981 e il 1982, ndr), veniva sempre qua da noi a prendere il cappuccino, arrivava con l’elicottero che atterrava qui davanti e poi andava a seguire le esercitazioni” (continua...)


lunedì 23 dicembre 2013

TRA L’ARGINE E LA RIVA - Il favoloso racconto della vita di Ceo Pajaro - Parte 1

In occasione delle festività natalizie Fuori Luogo vi ripropone in 3 puntate l'intervista integrale a Ceo Pajaro già apparsa nella nostra passata versione cartacea.
E' un modo per condividere una storia che ci unisce e ci identifica con la serenità che contraddistingue un augurio sincero.
Buona lettura dalla Redazione di Fuori Luogo. 



Per spiegare ad uno straniero il significato del termine ‘luogo’ potremmo utilizzare la definizione pulita ed efficace scritta sul dizionario. Oppure azzardare un’operazione meno immediata ma certamente più affascinante: che se in un determinato posto geografico, oltre a precise caratteristiche fisiche, riesci a riconoscere anche un umore ed un clima generati “naturalmente” da chi questo posto lo abita, allora avrai riconosciuto ciò che potresti descrivere con gli stessi aggettivi che si possono utilizzare per descrivere una persona. Potremmo poi prendere lo straniero per mano ed accompagnarlo in osteria da Ceo a mangiare un panino e bere una spuma o una birretta. Oltre a comprendere con poco sforzo il significato del termine, si porterà a casa il ricordo di un’esperienza da poter raccontare perché le storie che profumano di vita conservano il loro profumo anche in lingue differenti. 



IL LOCALE

A chi è stato almeno una volta da Ceo Pajaro prendendosi il giusto tempo di guardarsi attorno, non sarà sfuggito che, lì dentro, anche le sedie avrebbero una storia interessante da raccontare. Quando proponiamo a Ceo ed al figlio Nano di regalarci un po’ di tempo per ricordare la loro storia, che è anche la storia di un pezzo del nostro paese e della nostra Brenta, le parole non fanno nessuna fatica ad uscire.
Ed allora si parte. Si parte dal principio: “Raccontaci Ceo, da dove è iniziato tutto?” e Ceo racconta: “Ero giovane, era il 1949. Qui il posto era proprio bello, mi piaceva. Prima che arrivassi io, qua dove siamo adesso passava la ferrovia che portava la ghiaia dai cantieri del Duca Camerini di Piazzola alla stazione di Carmignano, e poi da lì a tutta l’Italia. Chiesi se si poteva costruire una casa e mi dissero che sarebbe stato troppo pericoloso, che l’acqua del Brenta prima o poi l’avrebbe portata via. Non mi importò, non li ascoltai: ebbi il permesso dal comune e costruii questa casa, avevo 23 anni allora. Nato l’8 Ottobre del ’26 anche se le carte dell’anagrafe riportano la data del 9”.
“E l’osteria?” chiediamo. “Dal primo giorno che venni ad abitare aprii l’osteria, anche se allora non si trattava proprio di osteria ma di un circolo del dopolavoro in cui i clienti dovevano avere una tessera per poter “consumare”. Non si poteva aprire un’osteria per problemi di bacino di popolazione. A quel tempo c’era il locale che oggi si chiama Malatesta che occupava già la licenza nella nostra zona per cui fino al ’69 non saremmo stati osteria”.


“Appena aperti qui preparavamo panini, le morette del Brenta fritte con la polenta che pescavamo con la moscaròea: una trappola per mosche che avevamo adattato alle nostre esigenze. La si posava sdraiata in riva al fiume in maniera che l’acqua la riempisse per metà, ci mettevamo un tappo e, sul fondo, della farina gialla che serviva da esca. Quando il pesce entrava non ne usciva più e quando la moscaròea era piena di pesce ci bastava tirarla su e mettere il pescato nel crivèo con la farina e dopo a friggere”. “A quei tempi funzionava a un franco alla passùa: quando uscivi dal locale, anche solo per pisciare, il contratto si scioglieva ed al rientro andava rinnovato!”. Il cibo a chilometri zero e l’happy hour di quarant’anni fa…
Penso ai rimpianti di chi è troppo giovane e non ha potuto vivere l’osteria a quella maniera, nel frattempo il racconto prosegue: “il pesce del Brenta abbiamo potuto mangiarlo fino al ’91, poi le cose sono cambiate, troppe concerie che, a monte, scaricavano e inquinavano l’acqua e il pesce spariva tutto, gli ultimi anni servivamo solo pesce di mare e, dal 2003 abbiamo deciso di smettere anche col servire pasti, troppo, troppo lavoro, no se riussiva a ‘ndarghine fòra!”.
Chiediamo di slancio: “Cos’altro è cambiato qui attorno da quando c’è l’osservatorio dell’osteria?” “Uh, un sacco di cose: dal modo in cui si trascorre la Pasquetta in Brenta ai mutamenti della fauna, uccelli e pesci soprattutto. Della Pasquetta mi ricordo cos’era negli anni ’60 e ’70, quando le famiglie venivano ad aprire la bella stagione in Brenta mangiando ovi e fugassa accompagnati da vino bianco. E com’era bello giocare a Rugolo – ricorda Nano – bastava una tavola di quelle che usano in edilizia, un mucchio di sabbia e delle uova che coloravamo cuocendole con ortica (per farle venire verdi) o altre spezie. Si facevano rotolare le uova su questa tavola che sistemavamo in pendenza e finivano nella sabbia. Chi lanciava l’uovo dopo di te, se toccava il tuo, se lo poteva portare a casa. I più fortunati erano quelli che potevano permettersi uova di oca o di faraona perché non si rompono mai…”.
“Dal punto di vista faunistico i cambiamenti sono stati, se possibile, anche di più: in questo periodo vediamo tante specie di uccelli, diversi però da quelli di una volta. La bigia padovana, ad esempio, non c’è più da almeno 10 anni credo, per colpa delle cornacchie e delle gazze che se le sono mangiate tutte.
Poi adesso abbiamo gli scoiattoli che prima non avevamo mai visto, vanno da una pianta all’altra ed è bello guardarli correre dalla finestra. Ce ne sono sia di quelli neri che di quelli rossi. Poi ci sono i picchi che senti fare – tac tac tac – sugli alberi: quello normale e quello verde. Vi è mai capitato di avere l’impressione che qualcuno vi rida dietro quando siete seduti fuori sotto la pergola? Quello è il verso del picchio verde. Gli uccelli tradizionali come il martin pescatore non sono mai mancati, mentre di nuovi sono arrivati i gabbiani che prima non c’erano. Cucaine e rondoni, invece, non se ne vedono più”.
“Se guardiamo ai pesci, siamo in un momento fortunato: sono tornati tutti a parte lo strijo che non c’è più da quando hanno fatto la diga di Carturo che gli impedisce di risalire fino a qua e, se faranno altre briglie nel fiume come sembra sia in progetto, allora si vedranno altri numerosi cambiamenti. Per adesso la pesca va forte anche se, rispetto a una volta, c’è meno di tutto, meno pesci, meno uccelli, di conseguenza meno pescatori e meno cacciatori.”    
E se semo anca divertii in sti ani savìo: dal ’71 al ’73 abbiamo organizzato la sagra della pasquetta, di fianco l’osteria c’erano perfino le giostre; e anche un paio di feste dell’Unità, per due anni consecutivi sempre nello spazio dietro il locale”.
E anca al giorno d’oncò e storie da contare no manca! Ogni mattina, Lunedì escluso, si parte qualche minuto prima delle 7 col primo caffè al primo cliente che è sempre Callisto Mariga, e fino alle 7 di sera è lunga, specialmente durante la stagione calda” (continua...)

mercoledì 18 dicembre 2013

LE LUCI DI NATALE - Buon Natale

di Fabio Marcolongo


Quando passeggio per Carmignano attraverso questa nebbia fitta e umida, provo una strana sensazione. Il freddo mi punge il viso, l’unica parte del corpo che non è avvolta dalla lana calda e soffice. 
La mia attenzione viene catturata dalle luci natalizie di via Marconi e penso: «Come sono cambiati i tempi. Una volta mi sembra che fossero tutte rosse e gialle. Adesso, invece, sono blu e gialle. Così sono più belle, “fanno” più “atmosfera di Natale”».

Incrocio una coppia di mezza età, non ci conosciamo, ma loro sorridono e mi dicono: «Buonasera». Ricambio il saluto e il sorriso. Mi sento felice. Poi, la moglie sussurra al marito: «Hai visto le luminarie? Sono più belle blu e gialle che non rosse e gialle come una volta! Il blu “fa” più Natale». Lui è d’accordo.

Passo vicino alle poste e vedo un gruppo di adolescenti che ridono e scherzano tra loro. Hanno dei petardi. Immagino che stiano facendo le “prove generali” per l’ultimo dell’anno, o meglio, una sorta di “primarie” per scegliere democraticamente quale sarà il “botto” migliore, quello da esplodere allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre. Mi chiedo: «Chissà se per esprimere la loro opinione hanno pagato due euro a testa, oltre al costo dei petardi». E poi un’altra domanda: «Perché proviamo felicità o eccitazione quando sentiamo queste “esplosioni”?». Non ho risposte. Non ho una risposta neanche al perché associo il costo, l’”utilità”, la necessità di ascoltare il rumore di un petardo, al problema della crisi economica. Abbandono il pensiero, lo lascio ingarbugliato nella nebbia. Oggi non voglio che nella mia testa ci siano idee negative. Voglio sentirmi felice.

Proseguo verso casa e incrocio una coppia piuttosto giovane, non ci conosciamo. Stavolta accenno io un saluto per primo, sorrido e dico: «Buonasera», ma loro non ricambiamo. Si limitano a guardarmi per un istante con un’espressione che sembra dire: «E questo chi è ? Manco lo conosciamo e ci saluta?».
Sorrido tra me, e penso: «Come sono cambiati i tempi. Chissà se passando per via Marconi noteranno che le luci di Natale non sono più rosse e gialle come una volta, ma sono blu e gialle».
Non vi conosco, comunque, in quel saluto c’era il mio augurio, perché anche voi passiate un buon Natale. Mi basta questo per sentirmi felice oggi.

mercoledì 11 dicembre 2013

CECITA' - SARAMAGO

di GP F1


“Cecità” è più di un libro. 
Con esso Jose Luis Saramago non ha narrato solamente una storia. Saramago ha scavato in profondità, nelle pieghe del genere umano per creare un racconto che può essere considerato una critica soffocante nei confronti della società e del senso del vivere comune. In un’ipotetica città dal nome sconosciuto, inizia a propagarsi un virus che a macchia di leopardo colpisce chiunque ne entri in contatto. Le vittime si accorgono subito di essere state colpite da questo male perché istantaneamente, e senza motivo apparente, non sono più in grado di vedere. Gli occhi non funzionano più per il semplice fatto che hanno incrociato altri occhi già colpiti da questa malattia. Le immagini vengono sostituite da un’uniforme massa bianca che getta nel panico e nel disorientamento più totale chi fino a pochi istanti prima stava vivendo la sua normalità. Una normalità che cessa immediatamente di esistere. La situazione è allarmante e per questo motivo non va assolutamente trascurata. Entra in azione la macchina burocratica che tenta di spegnere quello che viene definito “il mal bianco”. Si procede attuando scelte drastiche e risolute: chi è cieco e chi sta per diventarlo deve essere isolato presso strutture ed edifici destinati fino a quel momento ad altre funzioni. Scatta la quarantena. La burocrazia parla un “politichese” che altro non serve se non a celare la vera gravità della situazione. Le persone si svuotano della loro identità ed il mondo si capovolge. All’interno di un ex manicomio 400 esseri viventi sono costretti ad agire non più in base alla loro coscienza ma al loro animalesco spirito di sopravvivenza. Manca la vista e quindi manca la capacità di controllo e di osservazione. Chi agisce lo fa solo ed unicamente per restare vivo e non essere raggirato o derubato da chi usa la sopraffazione per ottenere un beneficio. Non si agisce più per crearsi un futuro ma ci si adopera per sopportare il presente in una società in cui tutto gira attorno all’ancestrale principio dell’ “Homo homini lupus”. Gli ideali su cui si fonda una società civile non esistono più: l’idea di coscienza collettiva, di bene comune, di rispetto e di collaborazione reciproca vengono calpestati perché, in una società che non vede, primeggia chi è più forte e più scaltro. Sopravvivendo seguendo solamente la legge del più forte, gli uomini si ritrovano sperduti e in lotta tra di loro. Saramago è geniale nell’evidenziare tutta una serie di meccanismi per i quali, in assenza di un sentire comune, regole ferree e brutali continuano a generarsi. Così, in un microcosmo come quello nato all’interno del manicomio, i gruppi di ciechi si dividono e si scontrano per la supremazia in un ambiente putrefatto dall’assenza di regole. Senza la vista, le sensazioni descritte coinvolgono gli altri sensi. E le descrizioni sono così precise e dettagliate che il lettore viene intrappolato all’interno di una lotta asfissiante ed intestina la cui conclusione rimane incerta fino all’ultimo momento.
Impossibilitati a vedere gli uomini si trovano con le spalle al muro: rassegnarsi o continuare a sperare in una miracolosa guarigione che però tarda a manifestarsi?
Il ritmo del racconto è incalzante, lo stile di scrittura è unico. Saramago, infatti, utilizza solo due elementi di punteggiatura: il punto e la virgola. Non esistono virgolette, non esistono due punti, non esiste il punto e virgola. E’ sorprendente come la lettura non perda fluidità ma, al contrario, venga agevolata da questo singolare accorgimento stilistico.
Dalla prima all’ultima pagina sembra di leggere un continuo flusso di coscienza che, senza soluzione di continuità, coinvolge tutti i protagonisti della storia. Vi lascio con una frase che Saramago sceglie di utilizzare per iniziare il racconto: “ Se puoi vedere, guarda. Se puoi guardare, osserva”.

lunedì 2 dicembre 2013

LA CLASSIFICA DELLE 5 COSE DEL MIO PAESE CHE NON DIGERISCO

di Beniamino Fortunato


Al 5° posto “STASERA NON SONO SU FACEBOOK SONO ALL’ESTATE CARMIGNANESE”: perché segnala un pregiudizio superficiale ed abusato. Trascorrere con intelligenza del tempo sui social network utilizzando i mezzi che il tuo tempo ti concede non potrà far più male di 4 prosecchi e 2 mojito ai gazebo estivi

Al 4° posto L’INVERSIONE DI TENDENZA DELLA MUSICA: perché ormai da qualche anno nascono sempre meno band musicali. Quello che è stato uno dei motori della creatività e della socialità giovanile in paese fin dagli anni ’60 sta pericolosamente scemando. Non ci sono spazi accessibili per provare e ci si sta dimenticando del valore che ha la musica per chi cresce

Al 3° posto IL PROBLEMA CHE NON SAPPIAMO RISOLVERE: l’orgoglio di vivere in un territorio di campagna non comprende l’aria irrespirabile che dal cavalcavia ci tiene in ostaggio da trent’anni. Come ci si può giustificare di non essere mai riusciti a far pesare le proprie comuni priorità di fronte all’irriguardoso interesse di pochi?

Al 2° posto CHI AMMINISTRA COI REGALI: intendo quel particolare sistema di fare apparire i lavori pubblici e i servizi come il regalo di un amministratore ai cittadini. Mi stanno bene i regali se li fai coi tuoi soldi, se li fai coi soldi di tutti non vanno presentati come regali. Le priorità e i reali bisogni andrebbero individuati assieme e non supposti con meccanismi sconosciuti  

Al 1° posto LE BANDIERE SCIUPATE FUORI DALLE FABBRICHE CHIUSE: perché se passi lungo la statale loro sono lì che non hanno nemmeno più la forza di sventolare. E ti viene da pensare a dove stia adesso tutta la frustrazione di chi le ha appese, e ti viene da pensare a come andrà, a quando finirà, a come si potrà rimediare a tutto questo e di chi ci si potrà ancora fidare.
Non si può passare la vita a raccogliere se prima se non hai seminato, ecco, io credo che ci si potrà ancora fidare solo di chi semina. 

mercoledì 27 novembre 2013

TUTTO UN ALTRO CALCIO: CARLOS CASZELY, LE MANI DIETRO LA SCHIENA

di Roberto Pivato


La sera del 21 novembre 1973 la selezione calcistica cilena è al gran completo al Palazzo de La Moneda di Santiago. L’occasione è di quelle speciali: il presidente Pinochet vuole stringere le mani ad uno ad uno ai valorosi calciatori che sono riusciti nella lodevole impresa di qualificare il Cile per i mondiali in Germania Ovest dell’anno successivo. Tra questi calciatori ce n’è uno bassoccio e un po’ tracagnotto, con folti capelli neri e ricci e un paio di baffoni dello stesso colore. 
È il cannoniere del Colo Colo e della nazionale, l’amatissimo Carlos Caszely. Carlos è in fila e aspetta l’arrivo del dittatore, lui che era un sostenitore di Allende suicida l’11 settembre di quell’anno durante il golpe del generale. Carlos ripensa alla patetica messa in scena del pomeriggio: lo Stadio Nacional di Santiago è praticamente vuoto, ci sono solo soldati coi fucili puntati sulle tribune, uno strano odore di morte negli spogliatoi, un arbitro che si presta alla sceneggiata e i giocatori della Roja. Si dovrebbe disputare la gara di ritorno dello spareggio contro l’Unione Sovietica per l’accesso ai campionati del mondo. All’andata, in URSS, finì 0-0. I sovietici però si sono rifiutati di recarsi in Cile a giocare, ritenendo inaccettabile calcare un campo di calcio divenuto campo di prigionia e di tortura in un paese retto da una dittatura militare. La FIFA non sente ragioni (se non quelle della politica e degli interessi, sic!). Assegna la vittoria a tavolino al Cile, che si qualifica, e appoggia la ridicola farsa voluta dal regime. 
La nazionale di casa dovrà fare il suo ingresso in campo e giocare comunque, contro un avversario invisibile, segnare e farsi immortalare dai fotografi in atteggiamenti esultanti ad eterna memoria dello splendore della dittatura. Tutto procede secondo copione: i cileni si passano la palla e arrivano davanti alla porta incontrastati. Carlos riceve la sfera e pensa di buttarla fuori, anziché in rete, come segno di ribellione. Poi però si guarda intorno e ha paura dei fucili spianati su di lui. Tocca ad un compagno che mette in rete e viene fotografato mentre esulta come avesse segnato un gol vero. 
Al rientro negli spogliatoi non c’è nessuna gioia, solo vergogna mista a rabbia ed incredulità. Solo ora i calciatori cominciano a realizzare di aver preso parte a tutto tranne che ad una partita di calcio. 
Il Re del metro quadrato (così soprannominato per la sua capacità di trovarsi sempre al posto giusto in area di rigore per segnare) vede Pinochet avanzare verso di lui. Allora incrocia le mani dietro la schiena. Il dittatore è costretto ad accettare lo smacco e a passare oltre. 

Negli anni a seguire Caszely non saluterà mai Pinochet e deciderà, nel 1988, di fare qualcosa di concreto per opporsi al suo regime. Si svolge il referendum per assegnare o meno un nuovo mandato presidenziale al generale. Nelle previsioni dovrebbe essere un plebiscito di Sì, invece, grazie anche all’iniziativa di Caszely, il quale gira uno spot pro-No in cui compare la madre che racconta di essere stata catturata e torturata negli anni ’70, il No si afferma e il Cile torna ad essere un paese democratico dopo 15 anni. 
Carlos può così liberarsi di quel senso di vergogna e di complicità col regime che non lo aveva mai abbandonato da quel lontano 21 novembre 1973. 

lunedì 18 novembre 2013

LA SAGOMA DA SPRITZ: tipi e tipologia

di Fabio Marcolongo


La Sagoma da Spritz: genesi
La Sagoma da Spritz (S.d.S.) è una creatura mutante che, per i due terzi della propria esistenza vive a pochi metri dalla porta di un bar: il “suo” bar preferito. Durante la stagione delle piogge si può, talvolta, incontrare anche appena dentro al suddetto locale, davanti al bancone. Il resto del tempo lo passa al lavoro: per sua fortuna ha un (sempre più raro) contratto a tempo indeterminato.
Fino ad oggi si sono osservati solo esemplari di sesso maschile. Si ipotizza che ciò sia dovuto alla particolare conformazione neurologica del cervello dell’uomo rispetto a quello - più evoluto - della donna.
Qualsiasi uomo di (più o meno) sana costituzione può trasformarsi in S.d.S. La mutazione può avvenire in diverse fasi della vita, anche se non è detto che persista: di solito si manifesta nell’età compresa tra i 20 e i 30 anni. Durante questo periodo, esistono una serie di fattori che determineranno se la mutazione sarà totale, parziale, se diventerà definitiva, o se sparirà completamente.
La S.d.S. ha tre obiettivi nella sua vita: guadagnarsi lo stipendio; spendere lo stipendio; pagare il mutuo al titolare del “suo” bar preferito attraverso consumazioni di alcolici e tramezzini tonno-cipolline.

Come riconoscere una S.d.S.
Innanzitutto bisogna individuare il contesto: come anticipavo la S.d.S. vive davanti al “suo” bar preferito.
Poi va osservata la postura. In quanto “sagoma” la sua caratteristica principale è la fissità: essa tende ad assumere una posizione che poi manterrà per tutto il week-end. Le gambe sono leggermente divaricate, con le punte dei piedi rivolte verso l’esterno; il braccio sinistro è piegato a novanta gradi e la mano stringe un bicchiere di spritz (attenzione: dopo cena la S.d.S. beve birra, e dopo la mezzanotte Amaro Montenegro o Unicum). Il braccio destro segue il profilo del fianco, la mano è all’altezza della coscia e, tra pollice e indice tiene una sigaretta. Il mignolo può essere più o meno sollevato verso l’alto con indiscutibile eleganza. Lo sguardo è fisso davanti a sé ed il volto suggerisce un’espressione ambigua, tra il mistico (perso nel suo mondo interiore e nella sua profonda spiritualità) e la sfida (se gli passi davanti e lui ti vede non sai esattamente cosa pensa di te, e questo ti mette a disagio).
La S.d.S. si muove poco per risparmiare energia. I movimenti tipici sono: lo spostamento dalla sua posizione strategica (appena fuori dal bar) verso il bancone del bar per ordinare da bere (quando non glielo portano); il movimento del braccio sinistro per sorseggiare; il lento movimento del braccio destro per portare la sigaretta alla bocca; la successiva aspirazione (visibile dalle fossette che si formano allo stringersi delle guance) e il contemporaneo abbassamento sempre del braccio destro, che torna alla sua comoda posizione iniziale; l’inclinazione del collo all’indietro con l’elegante soffio del fumo e l‘appena percettibile rigonfiamento delle guance. Durante tutta l’azione lo sguardo resta sempre fisso nel vuoto, davanti a lui.
Abbigliamento: di solito la S.d.S indossa una camicia e un paio di jeans, anche se molti giurano di aver visto degli esemplari in tuta da ginnastica. D’inverno porta un giubbotto più o meno elegante, dipende se si tratta di un giorno feriale o festivo.

L’incontro
Al di là dell’aspetto esteriore, se capita di incontrare una S.d.S, bisogna tener conto che la caratteristica più rilevante è la sua capacità oratoria: la S.d.S. riesce a discutere di qualsiasi argomento con serenità e leggerezza, e con vari livelli di approfondimento. Può parlare ininterrottamente per un tempo compreso tra le 48 e le 72 ore (flessibilità adatta sia ai week-end “normali”, sia a quelli con “il ponte”) talvolta anche di più.
L’interlocutore viene letteralmente “inglobato” nella conversazione in modo del tutto inconsapevole. Dopo pochi secondi cade in una profonda trance, dalla quale si riprende, nella migliore delle ipotesi,  il lunedì mattina. Non ricorda cosa è successo mentre beveva quello spritz il sabato, prima di pranzo, ma sente un forte desiderio di ritornare in quel locale il prima possibile, per un altro aperitivo e una piacevole chiacchierata con il tipo dallo sguardo misterioso.
Dunque, la S.d.S. diventa un ottimo strumento di marketing per i proprietari dei bar perché attira nuovi clienti e garantisce un certo livello di consumo mensile, attivando dei loop di offerte e contro-offerte di bevande alcoliche di ogni tipo.

Ultimamente, nei locali carmignanesi, oltre alla presenza di alcune S.d.S. si possono notare anche degli strani signori con abiti scuri firmati. Non sono agenti dell’FBI, ma studiosi di marketing della “Bocconi” che vengono ad osservare questo processo di attrazione e fidelizzazione del cliente. Il loro obiettivo è quello di estrapolare il modello economico della S.d.S. e applicarlo all’economia italiana per rilanciare lo sviluppo. Pochi lo sanno, ma Monti si è dimesso per questo: vuole occuparsi personalmente del fenomeno. Più di qualche lettore del nostro blog ha visto il Professore in qualche bar di Carmignano, con un block-notes a quadretti e un registratore, mentre beveva un caffè macchiato.

martedì 12 novembre 2013

BECCATEVI LA TRACKLIST

di GP F1


Questo è un post da prendere con le molle. Non sono né un musicista né un critico musicale. Sono uno che ascolta musica mentre corre. Nel mio iPod c’è un po’ di tutto e siccome mi è balenata l’idea di dare una colonna sonora ad uno scorcio ben preciso di Carmignano, ho deciso di selezionare una lista di canzoni che ho successivamente suddiviso ulteriormente. Questi i titoli delle due categorie che ho creato: “Canzoni passeggia e osserva” e “Canzoni corri che ti passa”. La strada sulla quale i più volenterosi potranno testare le due tracklist è quella tracciata a cavallo dell’argine destro del Brenta. Quella che parte da Ceo Pajaro ed arriva fino a Tezze. Quella che a Carmignano si chiama Via Brenta, verso Camazzole passa sotto il nome di Via Maglio e prosegue fino a Tezze diventando prima Via Boschi Camazzole e successivamente Via XXIV Aprile. Tutto questo per constatare che per un podista esiste un unico nome dialettale per definire questo tratto di percorso: “el terajo”. Fermo restando che la scelta delle canzoni è altamente soggettiva voglio farvi partecipi di un viaggio musicalmente brevissimo che comincia da Ceo e termina all’incrocio di Camazzole:

“Canzoni passeggia e osserva”

1- Once upon a time in the West – Ennio Morricone non ha bisogno di presentazioni. La melodia riproduce la lenta ma progressiva apertura verso uno spazio illimitato. Partendo da Ceo, dopo una cinquantina di metri la visuale effettivamente si allarga. Se a sinistra si avverte la presenza dell’urbanizzazione, a destra si apre l’orizzonte. Canzone che crea un effetto magico nel caso in cui si incrocino cavalli e cavalieri che stanno risalendo il Brenta attraverso l’ippovia parallela.
2- I got a name – La voce di Jim Croce è quella di un menestrello che dipinge in pochissime pennellate un paesaggio accarezzato da una brezza leggera e fluttuante come le strimpellate di chitarra della melodia di sottofondo. Il senso di leggerezza e di libertà pervade tutto il testo della canzone.
3- Lost Highway – Jeff Buckley all’ennesima potenza. Chitarra riverberata e voce che fluttua su tonalità irraggiungibili. Capire fino a che punto si può disperdere lo sguardo ascoltando questo brano non sta a me misurarlo. La strada da percorrere è una sola ma l’enfasi con cui Buckley interpreta il testo è travolgente. L’orizzonte, per qualche istante, non esiste più.
4- Universo – Cristina Donà e la relatività. Le ultime case sono alle spalle ed in mezzo a tanto verde si può assaporare un respiro che magicamente si adegua al ritmo della musica. Le montagne sullo sfondo, la relatività di essere solo un punto nel paesaggio circostante.
5- A rush of blood to the head – Coldplay. La canzone decolla dopo un minuto. E’ un volo sopra i campi, le case, la vecchia cava.
6- Where is my mind – Pixies. Un tentativo di atterraggio che può rivelarsi più complicato del solito. I piedi, contrariamente a ciò che afferma il testo della canzone, sono ben piantati a terra e stanno procedendo spediti verso Camazzole. Il coretto di chiusura è ipnotico.
7- More or less – Screaming trees. Si ripete il concetto di strada fatta in lungo ed in largo per migliaia di volte. Una strada che giunge ad un fiume. Le coincidenze tra testo e realtà sono poche ma esistono. Il Brenta, infatti, scorre a poche centinaia di metri dalla strada anche se non si vede. Più o meno (come suggerisce il titolo della canzone) l’arrivo è ormai imminente. In lontananza iniziano a stagliarsi i tetti del piccolo centro di Camazzole.
8- Impressioni di Settembre – PFM. Il pensiero diventa leggero. Ci sei quasi e quindi ti gusti le ultime centinaia di metri. L’odore della terra, l’odore del grano, il verde tutto intorno, la nebbia mattutina. Il finale in crescendo della canzone non è altro che la celebrazione di un arrivo.

“Canzoni corri che ti passa”

1- Ma il cielo è sempre più blu – Rino Gaetano. In una canzone un mondo descritto con una voce sgraziata che assomiglia ad uno strillo. Il cielo, quando parti da Ceo, è sempre più blu. 
2- Time bomb – Rancid. La giacca nera, le scarpe bianche ed il cappello nero non ti servono. Serve solo il ritmo incalzante di questa canzone tutta in levare. Ti lasci alle spalle il parco di Ceo e prosegui accelerando progressivamente.
3- One step beyond – Madness. Il filone ska prosegue con un classicone ormai senza tempo. Fai un passo avanti!
4- Blue Monday – New Order. Cambio di rotta e di sonorità. Dovresti essere davanti al piazzale di ingresso dell’ex cava. Il campionamento basso-batteria sembra il suono elettronizzato di un motore a scoppio. La cavalcata continua. Il palazzone dalla mille finestre nere lo lasci alla tua destra.
5- To lose my life – White Lies. Il testo è abbastanza cupo (abbastanza è un eufemismo). Ancora una volta, però, l’accoppiata basso e batteria accompagnate da una tastiera supereffettata ti lanciano la scarica di adrenalina. Questo ti permette di scollinare il dosso dopo il quale sei più vicino alla meta. Il mare verde è sempre alla tua destra
6- Neighborhood #1 (tunnels) – The Arcade Fire. Rallentano per un attimo i bpm percepiti. Si comincia in sordina ma progressivamente iniziano a suonarti nelle orecchie tutti e sette i componenti della band. E’ un decollo sopra i campi che vedi alla tua destra. Non c’è freno che ti tenga. Purifica i colori e purifica la tua mente, è il motto finale che il testo ti suggerisce.
7- Superunknown – Soundgarden. La voce di Chris Cornell proviene da un’altra dimensione. Sei all’ultimo tratto della tua corsa. Non ti resta che stringere i denti e cibarti di tutta l’adrenalina che questa canzone ti regala.
8- Baba O’Riley – The Who. Ce l’hai fatta. Goditi l’inno del tuo arrivo. 

lunedì 4 novembre 2013

LA CLASSIFICA DELLE 7 COSE PIU’ BELLE DEL MIO PAESE

di Beniamino Fortunato



Al 7° posto LA REGOLA NON SCRITTA: percorri in auto l’argine destro del Brenta che arriva fino a Tezze sapendo con certezza che due auto lì non possono passare contemporaneamente e con altrettanta certezza sai che incrocerai automobilisti consapevoli quanto te di ciò e disposti, per questo, a cedere il passo

Al 6° posto IL VIALE ALBERATO DIETRO IL COMUNE A GIUGNO: perché il grigio del pavè misto al verde delle foglie dona una serenità tanto breve quanto densa

Al 5° posto IL PROFUMO DELLA LATTERIA: a meno che tu non sia cresciuto in una fattoria, il profumo di latte lavorato che ti pervade appena entri a comprare il formaggio per te è il profumo delle mucche

Al 4° posto ARRIVARE A CAMAZZOLE IN BICI PER LA TEDESCA: quando il valore di un viaggio sta nel percorso: conquistare Camazzole attraversando quella fascia d’asfalto, sembra di camminare lungo la storia dei nostri avi

Al 3° posto IL TRONCHETTO DI CIOCCOLATO DELLA PASTICCERIA: da quando entravi in pasticceria con tua nonna fino ad oggi il vero sapore della cioccolata per te è quello del tronchetto che ti aspetta dietro la vetrina

Al 2° posto LA RISPETTOSA COMPLICITA’ QUANDO ENTRI DA CEO: fatta di voci roche, racconti iperbolici di fungaioli, cacciatori e pescatori, giochi di parole, storie di come era una volta e di tutte le persone che l’ hanno raccontato fino ad oggi. Già consapevoli, con prematuro rimpianto, che un giorno tutto questo rischierà di non esserci più  

Al 1° posto ANDARE ALLA SCUOLA ELEMENTARE IL SABATO: il tuo Sabato del villaggio ha il gusto del pollo della rosticceria e delle sue patatine fritte. E’, insieme, il sapore di un' infinita settimana che si sta concludendo e il profumo della domenica che sta arrivando…

martedì 29 ottobre 2013

TUTTO UN ALTRO CALCIO: ALEKSEY KLIMENKO, L’IMPORTANZA DI NON FARE GOL

di Roberto Pivato

Quando Aleksey Klimenko, quel caldo 9 agosto 1942 allo stadio Zenit di Kiev, si trovò la porta spalancata e più nemmeno un avversario da dribblare, ci pensò su un attimo, poi, sorridendo di sfida alle tribune, anziché calciare in fondo alla rete, si girò e mandò il pallone verso la metà campo. L’arbitro fischiò immediatamente la fine, ben in anticipo sui 90 minuti. 
E con la fine della partita fischiò anche la fine della vita di otto dei ventidue giocatori in campo.

Il match di cui stiamo parlando è quello svoltosi in Ucraina, sotto la dominazione nazista, tra l’FC Start e la Flakelf. La prima è una scalcagnata formazione composta per otto undicesimi da ex-giocatori della Dinamo Kiev (tra cui Klimenko), mentre gli altri tre appartenevano alla Lokomotiv, altra compagine della capitale; la seconda è una fortissima selezione di ufficiali della Luftwaffe. Una gara che doveva sancire la superiorità ariana sull’occupato sovietico e riparare al clamoroso 5-1 rifilato tre giorni prima dagli ucraini agli stessi tedeschi. Kiev ospitava in quell’estate un piccolo torneo, organizzato dagli occupanti, a cui prendevano parte altre sei formazioni composte per lo più da collaborazionisti filo-nazisti di varie nazionalità. La Start batté facilmente queste avversarie, arrivando allo scontro decisivo contro la ben più quotata (e più in forma, visti gli stenti in cui vivevano i giocatori di casa) Flakelf. È il 6 agosto e Klimenko e compagni si impongono ancora una volta senza difficoltà. Questo però rovinava i piani e l’immagine dell’invasore, oltre a dare forza e convinzione per resistere alla popolazione di Kiev. Così la Flakelf venne ulteriormente rafforzata e il 9 agosto venne programmata la “rivincita”. Stavolta il risultato doveva essere uno solo: successo tedesco. Per non correre alcun tipo di rischi l’arbitro fu un ufficiale SS il quale, prima dell’inizio, raccomandò alla Start di perdere e di fare il saluto nazista Heil Hitler verso la tribuna ai gerarchi del Fuhrer. Ordine subito disobbedito: gli undici in maglia rossa urlarono invece il tipico motto dello sport sovietico: Fitzcult Hurà! (viva la cultura fisica). Il direttore di gara arbitrava a senso unico e sugli spalti le mitragliatrici erano spianate in direzione dei calciatori ucraini. Perciò l’avvio fu favorevole alla Flakelf. Tuttavia, a fine primo tempo, la Start conduceva 3-1, tant’è che si rese necessario un nuovo intervento di un militare teutonico per rammentare gli esiti tragici di un risultato non previsto. Minaccia che parve fare effetto ad inizio ripresa. Due gol in pochi minuti e parità ristabilita. A questo punto però la dignità, l’incoscienza e la volontà di non essere brutalmente sottomessi anche in un campo di calcio fecero sì che Klimenko e compagni non stessero ai patti, portandosi sul 5-3. Già questo bastava a condannarli a morte ed essi ne erano fin troppo consapevoli. Il gesto che pose definitivamente termine alla contesa fu l’affronto di Klimenko: lo sgraziato terzino, con un’irresistibile serpentina, saltò come birilli quattro o cinque tedeschi, portiere compreso, e invece di realizzare il sesto gol ricacciò la sfera indietro come a dire: «Vi abbiamo dimostrato di essere più forti di voi, di non aver paura delle vostre minacce e della vostra forza. Ve lo dimostreremo ancora ed ancora, ogni volta che sarà necessario. Forse ci ucciderete, ma vinceremo sempre noi».

Il manifesto della Partita della morte
 Questo incontro è stato ribattezzato “la partita della morte”. Il primo giocatore venne arrestato un mese dopo e morì dopo venti giorni di atroci torture. Gli altri furono tutti deportati in campi di concentramento dove persero la vita. Solamente tre riuscirono a fuggirne vivi. Aleksey Klimenko fu ucciso per rappresaglia, il 24 febbraio 1943, assieme a due suoi compagni di squadra, nel famigerato lager ucraino di Syrec. Il corpo venne gettato nell’enorme fossa comune di Babij Jar, tristemente famosa per aver accolto il cadavere di più di 100 mila vittime del nazismo.

La formazione dell' FC Start
Gli undici eroici calciatori di quel 9 agosto erano: Nikolai Trusevich (ucciso assieme a Klimenko), Mikhail Sviridovskiy (sopravvissuto), Nikolai Korotkikh (il primo a morire), Aleksey Klimenko, Fedor Tyutchev (sopravvissuto), Mikhail Putistin, Ivan Kuzmenko (ucciso assieme a Klimenko), Makar Goncharenko (l’unico sopravvissuto ad aver raccontato quanto avvenuto), Vladimir Balakin, Vasiliy Sukharev, e Mikhail Melnik.

lunedì 21 ottobre 2013

L'AZIENDA: la crisi, all'improvviso

di Fabio Marcolongo


A Carmignano cʼera una prosperosa azienda nella quale lavoravano i due terzi degli
abitanti del fiorente paese dellʼAlta padovana. Tutto andava a gonfie vele. Operai,
impiegati e dirigenti realizzavano prodotti di alta qualità e li vendevano in tutta Italia,
in Europa e in America. Facevano un sacco di straordinari e potevano mantenere un
alto tenore di vita. Poi, un giorno, arrivò la crisi.
Fortunatamente, i manager della meravigliosa azienda avevano studiato economia
nelle migliori università italiane. Qualcuno aveva fatto anche un master allʼestero!
Quando i giornali e i politici dissero che eravamo in crisi economica, il Consiglio Di
Amministrazione, su pressione dei proprietari dellʼazienda, incaricò questi grandi
dirigenti di fare qualcosa: dovevano mettere in atto le migliori strategie suggerite dai
loro percorsi di studio e dalla loro profonda conoscenza delle leggi dellʼeconomia e
della finanza. Così, essi si chiusero nella sala riunioni per sei giorni e sei notti (il
settimo giorno si riposarono) e ne uscirono con un ambizioso piano di rilancioanticrisi
che prometteva “soluzioni innovative a sostegno del brand e del valore del
made in Italy”: aumentarono i propri stipendi e attivarono la cassa integrazione per i
dipendenti.
Purtroppo, a dispetto delle previsioni la situazione peggiorò: questa entità così
vagamente descritta dalle leggi dellʼeconomia e della finanza insegnate nelle migliori
università italiane (il mercato), si comportò in modo imprevisto rispetto a quanto
immaginato. I manager intascarono i loro sostanziosi “premi economici” e vennero
licenziati dalla proprietà dellʼazienda che, nellʼarco di pochi mesi, fu costretta a
chiudere “baracca e burattini”.

I dipendenti erano disperati: cʼera chi, come Antonio (detto Toni), dichiarato elettore
di centro-destra, iniziò a protestare contro i proprietari dellʼazienda perché avevano
scelto dei dirigenti incapaci. Toni sosteneva che avrebbero dovuto gestire le cose in
modo diverso e attaccava il sindacato che secondo lui non era intervenuto nel modo
giusto; poi cʼera Giuseppe (detto Bepi), dichiarato elettore di centro-sinistra e
rappresentante sindacale, che sosteneva che la rovina del sistema economico era la
logica capitalistica e la debolezza del potere operaio. Bepi e un gruppo di suoi
sostenitori erano in conflitto con Toni che aveva un altro gruppo di colleghi schierato
al suo fianco.
Cʼera anche Giovanni (detto Nani) che veniva sempre preso in giro perché non si
interessava di politica ed era un sognatore, sempre con la testa tra le nuvole.
Poco prima che lʼazienda fallisse Nani era andato a parlare sia a Toni che a Bepi,
suggerendo loro di concordare delle soluzioni alternative a quelle proposte dalla
dirigenza. Ma entrambi lo snobbarono dicendo che avevano dei modi di pensare
troppo diversi per collaborare tra loro (ognuno voleva dimostrare che il suo pensiero
era giusto e quello dellʼaltro era sbagliato); inoltre, proporre qualcosa a dirigenza e
proprietà voleva dire assumersi responsabilità, e questo li spaventava. Nani aveva
replicato che non si fidava di quei manager e se non si assumevano delle
responsabilità loro come dipendenti, probabilmente i problemi si sarebbero aggravati.
Ma ancora una volta la risposta dei due “piccoli leader” fu negativa.
Lʼazienda ha chiuso da un anno.
Toni è stato assunto nella banca dove aveva lavorato suo padre prima della
pensione. La domanda che viene da porsi è: perché la banca ha assunto un
geometra? La risposta è semplice: perché suo padre avanzava un favore dal
direttore della filiale di un paese a pochi chilometri da Carmignano. Tra lʼaltro, questa
distanza diventò un problema per Toni che si sentiva frustrato: tutta quella strada per
andare a lavorare! Per alleviare il suo dolore si comprò lʼiPhone5, lʼiPad con display
Retina e lʼAudi nuova. Questo lo fece stare meglio, almeno per un poʼ.
Bepi, vive da solo in una tenda piantata nel giardino della sua ex-azienda e dichiara
che lʼoccupazione della fabbrica andrà avanti ad oltranza, per rivendicare i suoi diritti
e contestare il capitalismo che sfrutta la classe operaia. Non si è più tagliato la barba
né i capelli, né le unghie dei piedi. É vestito da militare e si vanta di avere un
tatuaggio di Che Guevara nella zona pubica. In questi mesi ha imparato a suonare
discretamente con la chitarra sia “Bella, ciao” che “Bandiera Rossa”. Spesso lo si
sente litigare al cellulare o via skype con il suo acerrimo avversario di sempre, il neobancario
Toni. Anche in questo caso viene da porsi una domanda: come fa Bepi a
mantenersi? Ancora una volta la risposta è semplice: grazie a sua moglie. É vero
amore? Purtroppo no. Lei è una ricca ereditiera che, pochi mesi dopo il matrimonio,
Bepi trovò a letto con lʼamministratore delegato della sua ex-azienda. Da qui il
divorzio e la richiesta alla ricca donna di un cospicuo assegno mensile di
risarcimento (per danni morali). Era un suo diritto.

Tutti gli ex-dipendenti della ex-azienda sono stati assunti da una nuova azienda sorta
a Carmignano. Il proprietario della nuova azienda è un ex-dipendente dellʼex-azienda
che, dopo essere stato licenziato, provò a seguire il suo istinto e il suo sogno: avviare
unʼattività imprenditoriale. Si tratta proprio di Nani, quello che veniva criticato perché
non si fidava dei dirigenti e che non voleva schierarsi con nessuna ideologia politica;
quello che sosteneva che erano i dipendenti a doversi assumere delle responsabilità,
a mettersi in gioco, perché il mercato è imprevedibile, è fatto di persone e di
“relazioni tra le persone” e, lʼeconomia e la finanza se lo dimenticano sempre.
Allʼinizio fu dura: si rivolse alle banche che gli negarono qualsiasi finanziamento
perché non poteva dare loro le garanzie che pretendevano. Provò ad andare anche
alla filiale dove lavorava il suo vecchio collega Toni, sperando di ottenere un minimo
di sostegno da parte sua. Invece Toni lo derise dandogli del “povero sfigato”.
Ma Nani non si arrese. Fissò un incontro con la ex-moglie di Bepi per chiederle un
prestito. Lei era disponibile ad una condizione: il suo nuovo compagno, 
lʼex amministratore delegato della ex-azienda avrebbe dovuto essere assunto. Nani
rifiutò. La ricca ereditiera rimase di stucco. Alla fine, affascinata da tanta tenacia
cedette e finanziò lʼavvio della nuova attività.

Sono passati diversi anni da questi episodi. Lʼazienda di Nani continua ad essere un
successo e ad offrire opportunità a molte persone. Lui è diventato ricco e, quando
può, va in giro a raccontare la sua storia ai giovani, sottolineando il fatto che non
bisogna mai rinunciare alla propria libertà di pensiero e ai propri sogni. Perché
ognuno di noi può sempre fare la scelta giusta: quella di assumersi la responsabilità
per cambiare le cose quando vanno male.

martedì 15 ottobre 2013

MARCIANDO SUL BRENTA

di GP F1


La marcia sul Brenta è diventata ormai un appuntamento fisso nel calendario podistico dell’alta padovana. Giunta alla sua quarantunesima edizione, ha offerto a tutti i suoi partecipanti la possibilità di scegliere tra quattro diverse distanze: i cinque virgola cinque (per la precisione), gli otto, i sedici ed i ventisei chilometri.
Essendo una marcia non competitiva chiunque ha avuto la possibilità di cimentarsi e di completare uno di questi quattro percorsi che sono stati tracciati fra le campagne di Carmignano e dei paesi limitrofi ed il fiume Brenta. Tra i partecipanti, per la prima volta nella mia vita, c’ero anch’io. Questo è il mio tentativo di farvi il resoconto.
Ho scelto i sedici perché fondamentalmente ho voluto testare il mio grado di resistenza (ho già parlato di fatica nel post precedente). Dal mio punto di vista, l’incertezza del tempo atmosferico (come solitamente capita ai primi di ottobre) rappresenta non solo la variabile più imprevedibile ma anche il motivo per il quale, spesso, ho rinunciato a partire e di conseguenza a correre.
Detto in soldoni, io corro solo quando il tempo me lo permette. Stringendo il ragionamento ancora di più: corro solo se non piove. Scusate la prolissità ma era per farvi capire il primo bivio che mi si è presentato davanti. Ritorno velocemente nel racconto. Ore otto e venti e devo già decidere: correre o non correre? Il cielo grigio non promette nulla di buono……tuttavia non c’è traccia di goccia d’acqua. Tiene o non tiene? Con questo dubbio mi incammino davanti al Centro Giovanile dove istantaneamente decido di correre.
Il piazzale è un brulicare di persone: c’è chi si incammina lungo il percorso, chi si sta riscaldando per poi iniziare a correre, chi aggiusta le stringhe delle scarpe da ginnastica, chi conta i soldi per l’iscrizione, chi si toglie la felpa per mostrare orgoglioso il nome del gruppo podistico che rappresenta, chi si concentra, chi, come me, osserva e silenziosamente si accoda per ottenere il biglietto d’iscrizione. L’organizzazione è perfetta: in meno di trenta secondi pago, mi sistemo al collo il tagliando della marcia e mi concentro, prima di partire.
Meno sedici all’arrivo, non piove e sono un partecipante ufficiale della marcia.
Dopo due chilometri dalla partenza il sole fa capolino tra le nuvole scacciando quel grigio uggioso che mi ha fatto dubitare. E’ bello correre sapendo di non rischiare nulla. La strada l’ho fatta centinaia di volte ma è la prima volta che vedo le macchine accostare per far passare chi si muove a piedi. E’ una sensazione che non ho mai provato. Ad ogni incrocio, ad ogni svincolo, ad ogni intersezione incontro un volontario che gestisce il flusso ordinato dei corridori in azione. Per una mattina, l’unico rumore che ha la precedenza è quello del calpestio dei piedi. Piedi che corrono e che camminano, che pestano e che avanzano compatti verso l’arrivo.
Dopo tre chilometri e la prima stradina di campagna superata, mi trovo a Camazzole. La freccia direzionale mi fa svoltare a destra. Entro nella zona del Brenta. Le montagne che prima osservavo spariscono dalla mia vista perché girando a destra inizio a correre sull’argine interno del fiume. L’asfalto stradale ha lasciato il posto alla terra. La via si restringe, a volte sale, a volte scende, a volte piega improvvisa verso una direzione inaspettata seguendo sempre la naturale conformità del terreno. Sto correndo lungo il tratto che più di tutti simboleggia questa marcia. A sinistra il fiume, a destra si alternano alberi e campi. L’ acqua  della “busa” ha un riflesso unico che affascina più di un corridore: molti sono coloro che si fermano ad ammirare l’unicità del paesaggio.
A metà percorso è prevista la prima sosta. Bevo un tè caldo che assopisce i primi segni di fatica. Dieci al traguardo e mi rimetto ad osservare. C’è chi arriva, beve e riparte, chi si ferma un po’ più a lungo e rimane nell’orbita del tavolo ristoratore, chi neppure si ferma e continua imperterrito la sua marcia. Riparto e di nuovo il fiume si staglia alla mia sinistra. Passo sotto il ponte di Fontaniva, arrivo al gasdotto ed al ponte vecchio della ferrovia. C’è un altro punto di ristoro ma questa volta la mia sosta è velocissima. Ho preso il ritmo e me lo voglio tenere. Mi imbatto in due signore del gruppo podistico “Le ciacoe” e subito capisco il perché di quel nome così originale.
Il fiume si allontana, a Grantorto prendo a destra una stradina di campagna tracciata giusto a cavallo del confine dei campi. Di nuovo sono parte integrante di un quadro in movimento: cielo azzurro (che si sta però ingrigendo), verde dei campi, macchie coloratissime di magliette da corsa che si spostano fluttuando. Non ho la percezione del tempo che corre perché la mia unica unità di misura è la voglia di arrivare.
Al terzo punto di ristoro mi rendo conto di una novità squisitissima: cubetti di frittata appena spadellata. Incredibile!
Mangio e l’effetto è quello di braccio di ferro con gli spinaci. Ricomincio a correre, a cercare il ritmo giusto. Il sottopasso di via Ospitale è la porta di entrata al paese. Mancano meno di tre chilometri. Per distrarre la fatica parlo con un corridore che sta completando i suoi ventisei chilometri. Cerco di non pensare che chi mi sta parlando (di cosa non ricordo…..so che mi raccontava di …….mah!) con una tranquillità innaturale si sia fatto più di dieci chilometri in più di strada. All’incrocio di via Martiri confluiscono tutti i percorsi. Entro anch’io nel gruppone. C’è tanta gente, tante facce, tanti piedi. Durante il mio ultimo chilometro di corsa inizia a piovere. E’ una pioggia leggera, quasi impercettibile che non mi disturba affatto. All’arrivo, prima di fermarmi completamente, faccio qualche passo di scarico totale. Zero all’arrivo.
Sono arrivato ed ho completato la mia prima marcia sul brenta. La banda inizia a suonare. Per un attimo mi rivedo nella scena del varo del “Secondo tragico Fantozzi”.

Soddisfatto, mi incammino con il tagliando d’iscrizione e mi regalo un panino ristoratore. La pioggia intermittente mi permette di gustarmelo fuori, vicino al punto in cui continuano ad arrivare altri corridori. E’ un flusso continuo di atleti di ogni età. Tanti volti, tante gambe, tanti piedi.