di Roberto Pivato
«Se adesso dovessi giocare di nuovo quella finale, mi segnerei un gol
contro, sissignore».
Così Obdulio Jacinto Muiños Varela, conosciuto semplicemente
come Obdulio detto “el Nefe” (il
nero) e “el Jefe” (il capo),
rispondeva ad un sorpreso Osvaldo Soriano nella celebre intervista
rilasciatagli nel 1972 e pubblicata in Futbol.
Ecco, se volete un dipinto quanto mai attendibile e veritiero del grande capitano
della nazionale uruguayana campione del mondo nel ’50 leggetevi Soriano. Di
meglio non troverete. D’altra parte quella partita tra Brasile ed Uruguay al
Maracanà di Rio de Janeiro è rimasta nella leggenda del calcio. Così come è
rimasto nel mito uno dei suoi maggiori protagonisti: Varela appunto. Su di lui
e su quella gara sono fioriti una miriade di aneddoti e racconti tra romanzo e
realtà. Dai dirigenti uruguagi che si sarebbero accontentati di perdere 4-0,
passando per Obdulio che afferra la monetina lanciata dall’arbitro e lascia
come consolazione ai brasiliani il calcio d’inizio, fino all’epilogo con un
imbarazzato Jules Rimet che consegna, inaspettatamente, la coppa a Varela. In
mezzo il celeberrimo episodio del Jefe che
dopo il vantaggio verde-oro (a proposito: fino a quel momento la casacca
ufficiale del Brasile era bianca, dopo quella sconfitta verrà cambiata in
quella giallo-verde che vediamo tutt’oggi), ad inizio ripresa, raccoglie palla
e si porta a centrocampo lentamente, protestando col direttore di gara senza
motivo, con l’unico scopo, ben raggiunto, di raffreddare l’entusiasmo
incontenibile di giocatori e tifosi locali. L’Uruguay ribalterà il risultato
vincendo 2-1, aggiudicandosi il mondiale del 1950 e gettando un intero paese
nello sconforto.
Potete trovare facilmente il racconto dettagliato di
quell’incredibile finale (che tale non era nel vero e proprio senso della
parola, poiché si giocava un girone di finale all’italiana a quattro squadre di
cui il match conclusivo, e determinante, era proprio Brasile-Uruguay), con le
gesta epiche di capitan Varela.
Quello che qui vorremmo mettere in risalto è l’umanità di
questo grande campione. Nato a Montevideo il 20 settembre 1917 visse sempre in
povertà. Nemmeno il trionfo mondiale gli portò grandi vantaggi economici: «L’unica cosa che abbiamo ottenuto vincendo
quel titolo è stato dar lustro ai dirigenti dell’Associazione Uruguayana di
Calcio. Loro si sono fatti consegnare le medaglie d’oro e ai giocatori ne hanno
date altre d’argento». El Nefe aveva sempre mal tollerato la corruzione
che già serpeggiava nel mondo del calcio e i tanti sciacalli che si
arricchivano con la fatica altrui. Mal sopportava inoltre, ogni forma di
comando dall’alto e l’arte dell’apparire: si narra che non stringesse mai la
mano all’arbitro poiché la gente non pensasse che volesse ruffianarselo e che
non abbia mai posato in una foto ufficiale, perché lui era un calciatore, non
un modello. Era un leader, un giocatore dal carisma straordinario, che
riusciva a infondere coraggio ai compagni anche nei momenti più difficili.
Ma era anche un uomo portato naturalmente a stare dalla parte dei più
deboli, degli sconfitti: «Quella sera sono andato col mio massaggiatore a fare
un giro nei locali per berci qualche birra […] Tutti stavano piangendo. […] D’improvviso
vedo entrare un tizio grande e grosso che sembrava disperato. Piangeva come un
bambino e diceva: “Obdulio ci ha fottuti” e piangeva sempre di più. Io
lo guardavo e mi faceva pena. Loro avevano preparato il carnevale più grosso
del mondo per quella sera e se l’erano rovinato. A sentire quel tizio,
gliel’avevo rovinato io. Mi sentivo male. Mi sono accorto che ero amareggiato
quanto lui. Sarebbe stato bello vedere quel carnevale, vedere come la gente se
la spassava con una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto e non
avevamo ottenuto niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava confronto a
tutta quella tristezza?». Le parole di Obdulio in ricordo della sera della
finale vinta ci consegnano l’immagine di un uomo amareggiato che il suo
successo abbia gettato nello sconforto un paese intero. Avrebbe preferito
vedere la grande festa carioca piuttosto che essere causa e partecipare della
loro mestizia.
Jules Rimet consegna la Coppa a Varela |
Varela morirà il 2 agosto del ’96 a Montevideo, poverissimo, dopo aver
vissuto lontano dai riflettori, facendo perfino il parcheggiatore. Se ne andrà
con l’amarezza di aver dato tutto per una causa che gli si è rivelata indegna:
«Sono molto pentito di aver giocato. Se dovessi ricominciare la mia vita da
capo, il campo di gioco non lo degnerei neanche di uno sguardo. No, il calcio è
tutto uno schifo. Quando hanno provato a corrompermi non mi sono né arrabbiato,
né li ho buttati fuori a calci, né li ho denunciati. Ho detto di no, che si
cercassero uno con meno orgoglio di me. [...] Non vale la pena impegnarsi la
vita in una causa che è sudicia e corrotta».
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