Abbiamo incontrato
Alessandro Rigon, un giovane carmignanese di 25 anni, appena tornato da un anno
di volontariato nello
Zambia. Abbiamo raccolto le sue impressioni e le sue immagini di un mondo a noi
così lontano e sconosciuto, o conosciuto solamente attraverso quello che la tv
e i giornali ci mostrano. Qui di seguito l’affascinante chiacchierata fatta
assieme.
Da dove è nato il
desiderio di fare un’esperienza di volontariato in Africa?
Sinceramente non avevo mai pensato seriamente di andare in
Africa a fare volontariato. Finiti gli studi ho fatto vari lavori, poi Angelo
Chemello, un mio ex capo scout che da anni lavora come medico in Africa, mi ha
consigliato di rivolgermi ai missionari comboniani se volevo tentare
un’esperienza diversa; così sono andato da loro, non ancora del tutto convinto
di partire, e dopo un periodo di conoscenza di qualche mese mi è stata proposta
come meta lo Zambia. Gli accordi erano di restare anche solo un paio di mesi,
sarei potuto tornare quando avrei voluto, ma alla fine sono stato via un anno.
Ci dici che cosa facevi
all’interno della missione e come è strutturata?
La missione si trova nell’est Zambia, in una zona rurale (la
città più vicina dista 120 km) molto estesa (circa 170 km) che si chiama
Chikowa. Questa missione è stata fondata negli anni ’40, tuttavia è ancora una
zona di prima evangelizzazione di cui comunque si occupano solo i sacerdoti e i
brothers (fratelli, una sorta di
frati moderni): tanto per intenderci nessuno mi ha chiesto di convertire
qualcuno, né tantomeno di andare in chiesa. Io mi occupavo principalmente di
lavori di edilizia: dal sistemare le capanne, al fare i tetti delle chiese, a
costruire stalle per le capre... facevo comunque un po’ tutto quello di cui
c’era bisogno. Con me lavoravano 5-6 ragazzi locali, tutti giovani dai 19 ai 33
anni: lì soldi non ce ne sono, quindi tutti hanno bisogno di lavorare. Attorno
alla missione vera e propria (che comprende tra l’altro la scuola, una
falegnameria, un’officina, un mulino e un’azienda agricola) si estendono una
miriade di villaggi immersi nella foresta. Inoltre nel territorio di Chikowa
c’è un grande parco naturale che dà un po’ di lavoro grazie al turismo dei
safari.
Com’è la vita delle
popolazioni locali?
La maggior parte della gente lavora la terra, coltiva per lo
più frumento per fare la polenta (che loro mangiano tre volte al giorno!),
mentre solo i più intraprendenti provano la coltivazione del cotone o dei
bagigi. Le condizioni di vita sono durissime: si lavora a mano, in condizioni
pessime, tra il fango e le zanzare. Durante i mesi delle piogge (da dicembre a
marzo) la popolazione si sposta dai villaggi ai campi, vivendo in capanne
fatiscenti, isolati a causa delle frequenti esondazioni dei fiumi. La gente
dimostra tuttavia un grande spirito di adattamento e di sopravvivenza di cui dubito noi saremmo
capaci in quelle condizioni. Da sottolineare che c’è una differenza abissale
tra mondo rurale e città: in quest’ultime i costumi e lo stile di vita
occidentale inizia pian piano a diffondersi e qualcuno riesce a mettere da
parte un po’ di soldi per vivere più dignitosamente. Nelle zone rurali, invece,
il governo è quasi inesistente, viene riconosciuta molto di più l’appartenenza
tribale e il potere del principe-capo della tribù. In queste zone se non ci
fossero dei missionari che dedicano la loro vita a queste popolazioni, esse
sarebbero abbandonate a se stesse.
Quali sono i problemi
maggiori che hai visto?
Sicuramente aids e malaria che mietono moltissime, troppe
vittime. Poi il diffuso alcolismo tra i maschi: nella loro società sono gli
uomini a comandare, ma sono le donne che fanno andare avanti la baracca,
svolgendo anche i lavori più duri. Un altro problema che rallenta il
miglioramento della loro condizioni è la mancanza di intraprendenza: sono
ancora pochi quelli che cercano di migliorare nel lavoro per tentare di
guadagnare qualcosa di più. Molte persone infine sono ancora legate a credenze
magiche promulgate dagli stregoni e così tendono a rivolgersi a loro in caso di
malattia piuttosto che curarsi. Diffusissimo è pure l’analfabetismo.
Come sei stato accolto
dalla popolazione del posto?
Benissimo! Sono tutti molto ospitali e amichevoli, non hanno
nessuna diffidenza nei confronti dei bianchi. La zona è sempre stata molto
tranquilla, dopo due mesi che ero lì già giravo in bicicletta di notte in mezzo
ai campi senza il minimo timore. Il senso di condivisione e di ospitalità è
fortissimo: tutti ti invitano nelle loro capanne per mangiare insieme, anche se
il cibo non basta neppure a loro, e presentarti tutta la famiglia. Ho trascorso
persino un mese in un villaggio con una famiglia, mangiando con loro, lavandomi
nella loro stessa bacinella d’acqua, ascoltando la radio coi bimbi la sera e le
storie degli adulti attorno al fuoco. Gli unici un po’ malvisti sono gli
inglesi (lo Zambia è una loro ex colonia) e soprattutto cinesi e indiani che
sono lì per puro business e tendono a vendere merce scadente alla popolazione
poverissima per accumulare denaro.
Che visione hanno
dell’occidente e dell’Italia?
Tutti dicono che vogliono andare all’estero, ma in realtà non
sanno nulla dell’occidente e dell’Italia, nemmeno dove si trovano geograficamente.
Solo chi abita in città, grazie ai media, ha qualche idea più reale del mondo
circostante, ma i poveri delle foreste credono che in Europa o in America sia
tutto magnifico ed è difficile spiegargli che non è esattamente così.
La cosa più bella e
quella più brutta che hai visto?
Cose belle ce ne sono un’infinità… mi ricordo in particolare
di una notte in cui stavo accompagnando in auto una partoriente all’ospedale.
Lungo il tragitto però la ragazza ha dovuto partorire; per fortuna con me c’era
un’infermiera ed è andato tutto bene. Quando poi ho chiesto alla donna come
avrebbe chiamato il figlio mi ha risposto che lo avrebbe chiamato “macchina”
nella loro lingua, proprio perché era nato in auto. Una cosa che mi ha colpito
positivamente è inoltre il desiderio dei giovani di imparare lavori nuovi, la
loro passione. La cosa più brutta è senz’altro tutta la gente che muore tra
grandi sofferenze, perché deve continuare a lavorare e non può curarsi
adeguatamente. Un’altra cosa triste è la diffusa prostituzione: molte donne per
mantenere la famiglia sono costrette a produrre grappa di giorno e a
prostituirsi la notte. È una realtà accettata socialmente e
che tutti sanno, tant’è vero che non ho mai sentito un sacerdote dire in chiesa
di smetterla con la prostituzione, mentre, al contrario, esortano all’uso dei
preservativi contro l’aids e alla moderazione nel bere.
Ritieni che quest’anno
ti abbia cambiato?
Certamente il mio modo di vedere le cose è cambiato, ma un
conto è il modo di vedere le cose, un altro è il modo in cui le vivi. Non basta
un anno in Africa per riuscire a vivere in modo diverso qui in Italia, ad
esempio apprezzando maggiormente le piccole cose, o cercando di condividere di
più ciò che si ha. Credo sia un percorso in evoluzione e quest’anno per me è
stato solo l’inizio, tant’è vero che tra poco andrò in Uganda per due
settimane.
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