lunedì 4 luglio 2011

DAL FIUME AL MARE


Abbiamo incontrato Alessandro Rigon, un giovane carmignanese di 25 anni, appena tornato da un anno di volontariato nello Zambia. Abbiamo raccolto le sue impressioni e le sue immagini di un mondo a noi così lontano e sconosciuto, o conosciuto solamente attraverso quello che la tv e i giornali ci mostrano. Qui di seguito l’affascinante chiacchierata fatta assieme.

Da dove è nato il desiderio di fare un’esperienza di volontariato in Africa?
Sinceramente non avevo mai pensato seriamente di andare in Africa a fare volontariato. Finiti gli studi ho fatto vari lavori, poi Angelo Chemello, un mio ex capo scout che da anni lavora come medico in Africa, mi ha consigliato di rivolgermi ai missionari comboniani se volevo tentare un’esperienza diversa; così sono andato da loro, non ancora del tutto convinto di partire, e dopo un periodo di conoscenza di qualche mese mi è stata proposta come meta lo Zambia. Gli accordi erano di restare anche solo un paio di mesi, sarei potuto tornare quando avrei voluto, ma alla fine sono stato via un anno.
Ci dici che cosa facevi all’interno della missione e come è strutturata?
La missione si trova nell’est Zambia, in una zona rurale (la città più vicina dista 120 km) molto estesa (circa 170 km) che si chiama Chikowa. Questa missione è stata fondata negli anni ’40, tuttavia è ancora una zona di prima evangelizzazione di cui comunque si occupano solo i sacerdoti e i brothers (fratelli, una sorta di frati moderni): tanto per intenderci nessuno mi ha chiesto di convertire qualcuno, né tantomeno di andare in chiesa. Io mi occupavo principalmente di lavori di edilizia: dal sistemare le capanne, al fare i tetti delle chiese, a costruire stalle per le capre... facevo comunque un po’ tutto quello di cui c’era bisogno. Con me lavoravano 5-6 ragazzi locali, tutti giovani dai 19 ai 33 anni: lì soldi non ce ne sono, quindi tutti hanno bisogno di lavorare. Attorno alla missione vera e propria (che comprende tra l’altro la scuola, una falegnameria, un’officina, un mulino e un’azienda agricola) si estendono una miriade di villaggi immersi nella foresta. Inoltre nel territorio di Chikowa c’è un grande parco naturale che dà un po’ di lavoro grazie al turismo dei safari.
Com’è la vita delle popolazioni locali?
La maggior parte della gente lavora la terra, coltiva per lo più frumento per fare la polenta (che loro mangiano tre volte al giorno!), mentre solo i più intraprendenti provano la coltivazione del cotone o dei bagigi. Le condizioni di vita sono durissime: si lavora a mano, in condizioni pessime, tra il fango e le zanzare. Durante i mesi delle piogge (da dicembre a marzo) la popolazione si sposta dai villaggi ai campi, vivendo in capanne fatiscenti, isolati a causa delle frequenti esondazioni dei fiumi. La gente dimostra tuttavia un grande spirito di adattamento e di sopravvivenza di cui dubito noi saremmo capaci in quelle condizioni. Da sottolineare che c’è una differenza abissale tra mondo rurale e città: in quest’ultime i costumi e lo stile di vita occidentale inizia pian piano a diffondersi e qualcuno riesce a mettere da parte un po’ di soldi per vivere più dignitosamente. Nelle zone rurali, invece, il governo è quasi inesistente, viene riconosciuta molto di più l’appartenenza tribale e il potere del principe-capo della tribù. In queste zone se non ci fossero dei missionari che dedicano la loro vita a queste popolazioni, esse sarebbero abbandonate a se stesse.
Quali sono i problemi maggiori che hai visto?
Sicuramente aids e malaria che mietono moltissime, troppe vittime. Poi il diffuso alcolismo tra i maschi: nella loro società sono gli uomini a comandare, ma sono le donne che fanno andare avanti la baracca, svolgendo anche i lavori più duri. Un altro problema che rallenta il miglioramento della loro condizioni è la mancanza di intraprendenza: sono ancora pochi quelli che cercano di migliorare nel lavoro per tentare di guadagnare qualcosa di più. Molte persone infine sono ancora legate a credenze magiche promulgate dagli stregoni e così tendono a rivolgersi a loro in caso di malattia piuttosto che curarsi. Diffusissimo è pure l’analfabetismo.
Come sei stato accolto dalla popolazione del posto?
Benissimo! Sono tutti molto ospitali e amichevoli, non hanno nessuna diffidenza nei confronti dei bianchi. La zona è sempre stata molto tranquilla, dopo due mesi che ero lì già giravo in bicicletta di notte in mezzo ai campi senza il minimo timore. Il senso di condivisione e di ospitalità è fortissimo: tutti ti invitano nelle loro capanne per mangiare insieme, anche se il cibo non basta neppure a loro, e presentarti tutta la famiglia. Ho trascorso persino un mese in un villaggio con una famiglia, mangiando con loro, lavandomi nella loro stessa bacinella d’acqua, ascoltando la radio coi bimbi la sera e le storie degli adulti attorno al fuoco. Gli unici un po’ malvisti sono gli inglesi (lo Zambia è una loro ex colonia) e soprattutto cinesi e indiani che sono lì per puro business e tendono a vendere merce scadente alla popolazione poverissima per accumulare denaro.
Che visione hanno dell’occidente e dell’Italia?
Tutti dicono che vogliono andare all’estero, ma in realtà non sanno nulla dell’occidente e dell’Italia, nemmeno dove si trovano geograficamente. Solo chi abita in città, grazie ai media, ha qualche idea più reale del mondo circostante, ma i poveri delle foreste credono che in Europa o in America sia tutto magnifico ed è difficile spiegargli che non è esattamente così.
La cosa più bella e quella più brutta che hai visto?
Cose belle ce ne sono un’infinità… mi ricordo in particolare di una notte in cui stavo accompagnando in auto una partoriente all’ospedale. Lungo il tragitto però la ragazza ha dovuto partorire; per fortuna con me c’era un’infermiera ed è andato tutto bene. Quando poi ho chiesto alla donna come avrebbe chiamato il figlio mi ha risposto che lo avrebbe chiamato “macchina” nella loro lingua, proprio perché era nato in auto. Una cosa che mi ha colpito positivamente è inoltre il desiderio dei giovani di imparare lavori nuovi, la loro passione. La cosa più brutta è senz’altro tutta la gente che muore tra grandi sofferenze, perché deve continuare a lavorare e non può curarsi adeguatamente. Un’altra cosa triste è la diffusa prostituzione: molte donne per mantenere la famiglia sono costrette a produrre grappa di giorno e a prostituirsi la notte. È una realtà accettata socialmente e che tutti sanno, tant’è vero che non ho mai sentito un sacerdote dire in chiesa di smetterla con la prostituzione, mentre, al contrario, esortano all’uso dei preservativi contro l’aids e alla moderazione nel bere.
Ritieni che quest’anno ti abbia cambiato?
Certamente il mio modo di vedere le cose è cambiato, ma un conto è il modo di vedere le cose, un altro è il modo in cui le vivi. Non basta un anno in Africa per riuscire a vivere in modo diverso qui in Italia, ad esempio apprezzando maggiormente le piccole cose, o cercando di condividere di più ciò che si ha. Credo sia un percorso in evoluzione e quest’anno per me è stato solo l’inizio, tant’è vero che tra poco andrò in Uganda per due settimane.

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