di Roberto Pivato
Ore 16.33, 16 luglio 1950, stadio Maracanã, Rio de Janeiro.
La voce di Luis Mendes ripete ossessivamente, per nove volte: «Gol do
Uruguay!». Intorno il silenzio è totale: la folla è sconcertata, si sente solo
qualche risata di festeggiamento dei calciatori uruguaiani. A terra, come un
corpo privo di vita, il portiere del Brasile, la squadra che tutti già
consideravano campione del mondo, la quale invece ora sta perdendo, quando
mancano dieci minuti alla fine. Moacir Barbosa Nascimento ha appena visto
sfilare tra il suo braccio ed il palo la conclusione beffarda di Alcides
Ghiggia. È la rete che di fatto regala la Coppa Rimet all’Uruguay, gettando il
Brasile tutto nella disperazione.
È l’attimo che cambia la vita del primo
portiere nero della Seleção. Barbosa
viene immediatamente considerato il maggior responsabile del Maracanaço, il capro espiatorio da
sacrificare sull’altare della rabbia e della delusione di un popolo intero. Per
non lasciare dubbi i giornali del giorno dopo titolano: «Barbosa, l’uomo che ha
fatto piangere il Brasile». Su di lui se ne dicono tante, troppe: porta
sfortuna, l’ha fatto apposta, un nero in porta non può che combinare danni…
Nessuno dimenticherà mai quell’episodio: ovunque vada, Moacir viene indicato,
evitato, come un appestato od un criminale. Ed è proprio un criminale che si
sente quando afferma: «In Brasile la pena massima per il reato di omicidio è
trent’anni di carcere; sono quasi cinquant’anni che io pago per un crimine che
non ho commesso». Nel 1950 Barbosa aveva ventinove anni, era il titolare di una
delle formazioni più forti del suo paese, il Vasco da Gama, e con la nazionale
si era già aggiudicato il Campeonato
Sudamericano de Football (quella che diventerà poi la Coppa America)
dell’anno prima. Era noto per la sua abilità tra i pali, in particolare quella
di parare i rigori; era felicemente sposato; la sua squadra di club andava a
gonfie vele e lui si apprestava a diventare campione del mondo. Una vita
perfetta insomma. Fino alle 16.33 di quel pomeriggio di luglio.
Da lì in avanti
cinquant’anni di emarginazione, di disprezzo da parte praticamente di tutti.
Continua a giocare nel Vasco, non più per la nazionale; quando si ritira lavora
come custode di una piscina, poi anche l’unica persona che lo amava veramente,
sua moglie, muore. Moacir abbandona Rio de Janeiro e si trasferisce dalla
cognata, vivendo con una misera pensione che ha dovuto supplicare al suo ex
club. Ma le umiliazioni non si fermano qui! Un giorno al supermercato una
signora con un bambino lo riconosce e, mostrandolo al piccolo, gli spiega:
«Quello è l’uomo che ci ha fatto perdere il mondiale». Nel ’93 gli viene il
desiderio di andare a salutare la selezione verde-oro, prima di un match di
qualificazione alla coppa del mondo. Gli impediscono perfino di entrare.
A
nulla vale il suo tentativo scaramantico di liberarsi del fantasma di quella
maledetta partita. Quando tredici anni dopo il mondiale le porte del Maracanã
vengono tolte e sostituite, Barbosa si fa consegnare i pali. La sera invita i
pochi amici rimastigli a cena e prepara un barbecue.
Nessuno sospetta che la legna che brucia sia quella delle porte del famoso
stadio. Una celebre fotografia ritrae il portiere su una di quelle porte, la
rete tra le mani, lo sguardo triste, consapevole della gravità di quanto
successo, che guarda il vuoto, immediatamente dopo il sigillo di Ghiggia. È
l’immagine perfetta della solitudine e dell’abbandono di quell’uomo, costretto
a pagare per cinquant’anni la colpa di un gol subito. Il 7 aprile del 2000
Barbosa si è spento: al suo funerale poche persone, nessun compagno di squadra
e nessun rappresentante delle istituzioni. Alla sua prima morte, alle ore 16.33
del 16 luglio 1950, era presente una
folla di duecentomila persone.
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