martedì 29 ottobre 2013

TUTTO UN ALTRO CALCIO: ALEKSEY KLIMENKO, L’IMPORTANZA DI NON FARE GOL

di Roberto Pivato

Quando Aleksey Klimenko, quel caldo 9 agosto 1942 allo stadio Zenit di Kiev, si trovò la porta spalancata e più nemmeno un avversario da dribblare, ci pensò su un attimo, poi, sorridendo di sfida alle tribune, anziché calciare in fondo alla rete, si girò e mandò il pallone verso la metà campo. L’arbitro fischiò immediatamente la fine, ben in anticipo sui 90 minuti. 
E con la fine della partita fischiò anche la fine della vita di otto dei ventidue giocatori in campo.

Il match di cui stiamo parlando è quello svoltosi in Ucraina, sotto la dominazione nazista, tra l’FC Start e la Flakelf. La prima è una scalcagnata formazione composta per otto undicesimi da ex-giocatori della Dinamo Kiev (tra cui Klimenko), mentre gli altri tre appartenevano alla Lokomotiv, altra compagine della capitale; la seconda è una fortissima selezione di ufficiali della Luftwaffe. Una gara che doveva sancire la superiorità ariana sull’occupato sovietico e riparare al clamoroso 5-1 rifilato tre giorni prima dagli ucraini agli stessi tedeschi. Kiev ospitava in quell’estate un piccolo torneo, organizzato dagli occupanti, a cui prendevano parte altre sei formazioni composte per lo più da collaborazionisti filo-nazisti di varie nazionalità. La Start batté facilmente queste avversarie, arrivando allo scontro decisivo contro la ben più quotata (e più in forma, visti gli stenti in cui vivevano i giocatori di casa) Flakelf. È il 6 agosto e Klimenko e compagni si impongono ancora una volta senza difficoltà. Questo però rovinava i piani e l’immagine dell’invasore, oltre a dare forza e convinzione per resistere alla popolazione di Kiev. Così la Flakelf venne ulteriormente rafforzata e il 9 agosto venne programmata la “rivincita”. Stavolta il risultato doveva essere uno solo: successo tedesco. Per non correre alcun tipo di rischi l’arbitro fu un ufficiale SS il quale, prima dell’inizio, raccomandò alla Start di perdere e di fare il saluto nazista Heil Hitler verso la tribuna ai gerarchi del Fuhrer. Ordine subito disobbedito: gli undici in maglia rossa urlarono invece il tipico motto dello sport sovietico: Fitzcult Hurà! (viva la cultura fisica). Il direttore di gara arbitrava a senso unico e sugli spalti le mitragliatrici erano spianate in direzione dei calciatori ucraini. Perciò l’avvio fu favorevole alla Flakelf. Tuttavia, a fine primo tempo, la Start conduceva 3-1, tant’è che si rese necessario un nuovo intervento di un militare teutonico per rammentare gli esiti tragici di un risultato non previsto. Minaccia che parve fare effetto ad inizio ripresa. Due gol in pochi minuti e parità ristabilita. A questo punto però la dignità, l’incoscienza e la volontà di non essere brutalmente sottomessi anche in un campo di calcio fecero sì che Klimenko e compagni non stessero ai patti, portandosi sul 5-3. Già questo bastava a condannarli a morte ed essi ne erano fin troppo consapevoli. Il gesto che pose definitivamente termine alla contesa fu l’affronto di Klimenko: lo sgraziato terzino, con un’irresistibile serpentina, saltò come birilli quattro o cinque tedeschi, portiere compreso, e invece di realizzare il sesto gol ricacciò la sfera indietro come a dire: «Vi abbiamo dimostrato di essere più forti di voi, di non aver paura delle vostre minacce e della vostra forza. Ve lo dimostreremo ancora ed ancora, ogni volta che sarà necessario. Forse ci ucciderete, ma vinceremo sempre noi».

Il manifesto della Partita della morte
 Questo incontro è stato ribattezzato “la partita della morte”. Il primo giocatore venne arrestato un mese dopo e morì dopo venti giorni di atroci torture. Gli altri furono tutti deportati in campi di concentramento dove persero la vita. Solamente tre riuscirono a fuggirne vivi. Aleksey Klimenko fu ucciso per rappresaglia, il 24 febbraio 1943, assieme a due suoi compagni di squadra, nel famigerato lager ucraino di Syrec. Il corpo venne gettato nell’enorme fossa comune di Babij Jar, tristemente famosa per aver accolto il cadavere di più di 100 mila vittime del nazismo.

La formazione dell' FC Start
Gli undici eroici calciatori di quel 9 agosto erano: Nikolai Trusevich (ucciso assieme a Klimenko), Mikhail Sviridovskiy (sopravvissuto), Nikolai Korotkikh (il primo a morire), Aleksey Klimenko, Fedor Tyutchev (sopravvissuto), Mikhail Putistin, Ivan Kuzmenko (ucciso assieme a Klimenko), Makar Goncharenko (l’unico sopravvissuto ad aver raccontato quanto avvenuto), Vladimir Balakin, Vasiliy Sukharev, e Mikhail Melnik.

lunedì 21 ottobre 2013

L'AZIENDA: la crisi, all'improvviso

di Fabio Marcolongo


A Carmignano cʼera una prosperosa azienda nella quale lavoravano i due terzi degli
abitanti del fiorente paese dellʼAlta padovana. Tutto andava a gonfie vele. Operai,
impiegati e dirigenti realizzavano prodotti di alta qualità e li vendevano in tutta Italia,
in Europa e in America. Facevano un sacco di straordinari e potevano mantenere un
alto tenore di vita. Poi, un giorno, arrivò la crisi.
Fortunatamente, i manager della meravigliosa azienda avevano studiato economia
nelle migliori università italiane. Qualcuno aveva fatto anche un master allʼestero!
Quando i giornali e i politici dissero che eravamo in crisi economica, il Consiglio Di
Amministrazione, su pressione dei proprietari dellʼazienda, incaricò questi grandi
dirigenti di fare qualcosa: dovevano mettere in atto le migliori strategie suggerite dai
loro percorsi di studio e dalla loro profonda conoscenza delle leggi dellʼeconomia e
della finanza. Così, essi si chiusero nella sala riunioni per sei giorni e sei notti (il
settimo giorno si riposarono) e ne uscirono con un ambizioso piano di rilancioanticrisi
che prometteva “soluzioni innovative a sostegno del brand e del valore del
made in Italy”: aumentarono i propri stipendi e attivarono la cassa integrazione per i
dipendenti.
Purtroppo, a dispetto delle previsioni la situazione peggiorò: questa entità così
vagamente descritta dalle leggi dellʼeconomia e della finanza insegnate nelle migliori
università italiane (il mercato), si comportò in modo imprevisto rispetto a quanto
immaginato. I manager intascarono i loro sostanziosi “premi economici” e vennero
licenziati dalla proprietà dellʼazienda che, nellʼarco di pochi mesi, fu costretta a
chiudere “baracca e burattini”.

I dipendenti erano disperati: cʼera chi, come Antonio (detto Toni), dichiarato elettore
di centro-destra, iniziò a protestare contro i proprietari dellʼazienda perché avevano
scelto dei dirigenti incapaci. Toni sosteneva che avrebbero dovuto gestire le cose in
modo diverso e attaccava il sindacato che secondo lui non era intervenuto nel modo
giusto; poi cʼera Giuseppe (detto Bepi), dichiarato elettore di centro-sinistra e
rappresentante sindacale, che sosteneva che la rovina del sistema economico era la
logica capitalistica e la debolezza del potere operaio. Bepi e un gruppo di suoi
sostenitori erano in conflitto con Toni che aveva un altro gruppo di colleghi schierato
al suo fianco.
Cʼera anche Giovanni (detto Nani) che veniva sempre preso in giro perché non si
interessava di politica ed era un sognatore, sempre con la testa tra le nuvole.
Poco prima che lʼazienda fallisse Nani era andato a parlare sia a Toni che a Bepi,
suggerendo loro di concordare delle soluzioni alternative a quelle proposte dalla
dirigenza. Ma entrambi lo snobbarono dicendo che avevano dei modi di pensare
troppo diversi per collaborare tra loro (ognuno voleva dimostrare che il suo pensiero
era giusto e quello dellʼaltro era sbagliato); inoltre, proporre qualcosa a dirigenza e
proprietà voleva dire assumersi responsabilità, e questo li spaventava. Nani aveva
replicato che non si fidava di quei manager e se non si assumevano delle
responsabilità loro come dipendenti, probabilmente i problemi si sarebbero aggravati.
Ma ancora una volta la risposta dei due “piccoli leader” fu negativa.
Lʼazienda ha chiuso da un anno.
Toni è stato assunto nella banca dove aveva lavorato suo padre prima della
pensione. La domanda che viene da porsi è: perché la banca ha assunto un
geometra? La risposta è semplice: perché suo padre avanzava un favore dal
direttore della filiale di un paese a pochi chilometri da Carmignano. Tra lʼaltro, questa
distanza diventò un problema per Toni che si sentiva frustrato: tutta quella strada per
andare a lavorare! Per alleviare il suo dolore si comprò lʼiPhone5, lʼiPad con display
Retina e lʼAudi nuova. Questo lo fece stare meglio, almeno per un poʼ.
Bepi, vive da solo in una tenda piantata nel giardino della sua ex-azienda e dichiara
che lʼoccupazione della fabbrica andrà avanti ad oltranza, per rivendicare i suoi diritti
e contestare il capitalismo che sfrutta la classe operaia. Non si è più tagliato la barba
né i capelli, né le unghie dei piedi. É vestito da militare e si vanta di avere un
tatuaggio di Che Guevara nella zona pubica. In questi mesi ha imparato a suonare
discretamente con la chitarra sia “Bella, ciao” che “Bandiera Rossa”. Spesso lo si
sente litigare al cellulare o via skype con il suo acerrimo avversario di sempre, il neobancario
Toni. Anche in questo caso viene da porsi una domanda: come fa Bepi a
mantenersi? Ancora una volta la risposta è semplice: grazie a sua moglie. É vero
amore? Purtroppo no. Lei è una ricca ereditiera che, pochi mesi dopo il matrimonio,
Bepi trovò a letto con lʼamministratore delegato della sua ex-azienda. Da qui il
divorzio e la richiesta alla ricca donna di un cospicuo assegno mensile di
risarcimento (per danni morali). Era un suo diritto.

Tutti gli ex-dipendenti della ex-azienda sono stati assunti da una nuova azienda sorta
a Carmignano. Il proprietario della nuova azienda è un ex-dipendente dellʼex-azienda
che, dopo essere stato licenziato, provò a seguire il suo istinto e il suo sogno: avviare
unʼattività imprenditoriale. Si tratta proprio di Nani, quello che veniva criticato perché
non si fidava dei dirigenti e che non voleva schierarsi con nessuna ideologia politica;
quello che sosteneva che erano i dipendenti a doversi assumere delle responsabilità,
a mettersi in gioco, perché il mercato è imprevedibile, è fatto di persone e di
“relazioni tra le persone” e, lʼeconomia e la finanza se lo dimenticano sempre.
Allʼinizio fu dura: si rivolse alle banche che gli negarono qualsiasi finanziamento
perché non poteva dare loro le garanzie che pretendevano. Provò ad andare anche
alla filiale dove lavorava il suo vecchio collega Toni, sperando di ottenere un minimo
di sostegno da parte sua. Invece Toni lo derise dandogli del “povero sfigato”.
Ma Nani non si arrese. Fissò un incontro con la ex-moglie di Bepi per chiederle un
prestito. Lei era disponibile ad una condizione: il suo nuovo compagno, 
lʼex amministratore delegato della ex-azienda avrebbe dovuto essere assunto. Nani
rifiutò. La ricca ereditiera rimase di stucco. Alla fine, affascinata da tanta tenacia
cedette e finanziò lʼavvio della nuova attività.

Sono passati diversi anni da questi episodi. Lʼazienda di Nani continua ad essere un
successo e ad offrire opportunità a molte persone. Lui è diventato ricco e, quando
può, va in giro a raccontare la sua storia ai giovani, sottolineando il fatto che non
bisogna mai rinunciare alla propria libertà di pensiero e ai propri sogni. Perché
ognuno di noi può sempre fare la scelta giusta: quella di assumersi la responsabilità
per cambiare le cose quando vanno male.

martedì 15 ottobre 2013

MARCIANDO SUL BRENTA

di GP F1


La marcia sul Brenta è diventata ormai un appuntamento fisso nel calendario podistico dell’alta padovana. Giunta alla sua quarantunesima edizione, ha offerto a tutti i suoi partecipanti la possibilità di scegliere tra quattro diverse distanze: i cinque virgola cinque (per la precisione), gli otto, i sedici ed i ventisei chilometri.
Essendo una marcia non competitiva chiunque ha avuto la possibilità di cimentarsi e di completare uno di questi quattro percorsi che sono stati tracciati fra le campagne di Carmignano e dei paesi limitrofi ed il fiume Brenta. Tra i partecipanti, per la prima volta nella mia vita, c’ero anch’io. Questo è il mio tentativo di farvi il resoconto.
Ho scelto i sedici perché fondamentalmente ho voluto testare il mio grado di resistenza (ho già parlato di fatica nel post precedente). Dal mio punto di vista, l’incertezza del tempo atmosferico (come solitamente capita ai primi di ottobre) rappresenta non solo la variabile più imprevedibile ma anche il motivo per il quale, spesso, ho rinunciato a partire e di conseguenza a correre.
Detto in soldoni, io corro solo quando il tempo me lo permette. Stringendo il ragionamento ancora di più: corro solo se non piove. Scusate la prolissità ma era per farvi capire il primo bivio che mi si è presentato davanti. Ritorno velocemente nel racconto. Ore otto e venti e devo già decidere: correre o non correre? Il cielo grigio non promette nulla di buono……tuttavia non c’è traccia di goccia d’acqua. Tiene o non tiene? Con questo dubbio mi incammino davanti al Centro Giovanile dove istantaneamente decido di correre.
Il piazzale è un brulicare di persone: c’è chi si incammina lungo il percorso, chi si sta riscaldando per poi iniziare a correre, chi aggiusta le stringhe delle scarpe da ginnastica, chi conta i soldi per l’iscrizione, chi si toglie la felpa per mostrare orgoglioso il nome del gruppo podistico che rappresenta, chi si concentra, chi, come me, osserva e silenziosamente si accoda per ottenere il biglietto d’iscrizione. L’organizzazione è perfetta: in meno di trenta secondi pago, mi sistemo al collo il tagliando della marcia e mi concentro, prima di partire.
Meno sedici all’arrivo, non piove e sono un partecipante ufficiale della marcia.
Dopo due chilometri dalla partenza il sole fa capolino tra le nuvole scacciando quel grigio uggioso che mi ha fatto dubitare. E’ bello correre sapendo di non rischiare nulla. La strada l’ho fatta centinaia di volte ma è la prima volta che vedo le macchine accostare per far passare chi si muove a piedi. E’ una sensazione che non ho mai provato. Ad ogni incrocio, ad ogni svincolo, ad ogni intersezione incontro un volontario che gestisce il flusso ordinato dei corridori in azione. Per una mattina, l’unico rumore che ha la precedenza è quello del calpestio dei piedi. Piedi che corrono e che camminano, che pestano e che avanzano compatti verso l’arrivo.
Dopo tre chilometri e la prima stradina di campagna superata, mi trovo a Camazzole. La freccia direzionale mi fa svoltare a destra. Entro nella zona del Brenta. Le montagne che prima osservavo spariscono dalla mia vista perché girando a destra inizio a correre sull’argine interno del fiume. L’asfalto stradale ha lasciato il posto alla terra. La via si restringe, a volte sale, a volte scende, a volte piega improvvisa verso una direzione inaspettata seguendo sempre la naturale conformità del terreno. Sto correndo lungo il tratto che più di tutti simboleggia questa marcia. A sinistra il fiume, a destra si alternano alberi e campi. L’ acqua  della “busa” ha un riflesso unico che affascina più di un corridore: molti sono coloro che si fermano ad ammirare l’unicità del paesaggio.
A metà percorso è prevista la prima sosta. Bevo un tè caldo che assopisce i primi segni di fatica. Dieci al traguardo e mi rimetto ad osservare. C’è chi arriva, beve e riparte, chi si ferma un po’ più a lungo e rimane nell’orbita del tavolo ristoratore, chi neppure si ferma e continua imperterrito la sua marcia. Riparto e di nuovo il fiume si staglia alla mia sinistra. Passo sotto il ponte di Fontaniva, arrivo al gasdotto ed al ponte vecchio della ferrovia. C’è un altro punto di ristoro ma questa volta la mia sosta è velocissima. Ho preso il ritmo e me lo voglio tenere. Mi imbatto in due signore del gruppo podistico “Le ciacoe” e subito capisco il perché di quel nome così originale.
Il fiume si allontana, a Grantorto prendo a destra una stradina di campagna tracciata giusto a cavallo del confine dei campi. Di nuovo sono parte integrante di un quadro in movimento: cielo azzurro (che si sta però ingrigendo), verde dei campi, macchie coloratissime di magliette da corsa che si spostano fluttuando. Non ho la percezione del tempo che corre perché la mia unica unità di misura è la voglia di arrivare.
Al terzo punto di ristoro mi rendo conto di una novità squisitissima: cubetti di frittata appena spadellata. Incredibile!
Mangio e l’effetto è quello di braccio di ferro con gli spinaci. Ricomincio a correre, a cercare il ritmo giusto. Il sottopasso di via Ospitale è la porta di entrata al paese. Mancano meno di tre chilometri. Per distrarre la fatica parlo con un corridore che sta completando i suoi ventisei chilometri. Cerco di non pensare che chi mi sta parlando (di cosa non ricordo…..so che mi raccontava di …….mah!) con una tranquillità innaturale si sia fatto più di dieci chilometri in più di strada. All’incrocio di via Martiri confluiscono tutti i percorsi. Entro anch’io nel gruppone. C’è tanta gente, tante facce, tanti piedi. Durante il mio ultimo chilometro di corsa inizia a piovere. E’ una pioggia leggera, quasi impercettibile che non mi disturba affatto. All’arrivo, prima di fermarmi completamente, faccio qualche passo di scarico totale. Zero all’arrivo.
Sono arrivato ed ho completato la mia prima marcia sul brenta. La banda inizia a suonare. Per un attimo mi rivedo nella scena del varo del “Secondo tragico Fantozzi”.

Soddisfatto, mi incammino con il tagliando d’iscrizione e mi regalo un panino ristoratore. La pioggia intermittente mi permette di gustarmelo fuori, vicino al punto in cui continuano ad arrivare altri corridori. E’ un flusso continuo di atleti di ogni età. Tanti volti, tante gambe, tanti piedi.  

venerdì 11 ottobre 2013

IL VAJONT DI PAOLINI A MEZZANOTTE: STUPIDITÀ O PREMEDITAZIONE?

di Roberto Pivato


Mercoledì sera rientro a casa a mezzanotte. Mi concedo un po’ di tv e, con mia sorpresa e piacere, scopro che su Raidue trasmettono lo spettacolo di Marco Paolini dedicato al Vajont (andato in onda originariamente in RAI nel 1997, direttamente dalla diga). 
Rimango rapito dalla bravura dell’attore e dalla bellezza dello spettacolo stesso e così, quando termina e me ne vado a letto, sono le 2.30. Poco male mi dico: ne è valsa la pena. Il mattino dopo mi sveglio e d’improvviso mi vien da pensare: ma perché hanno mandato in onda un programma così interessante ed educativo a mezzanotte? 
In sovraimpressione compariva pure la dicitura: documento straordinario. 
Talmente straordinario da non meritare una prima serata evidentemente. 
Chi avesse voluto vederselo per intero come me avrebbe dovuto coricarsi molto tardi. Ora, in mezzo ai tanti servizi triti e ritriti dei tg su questa tragedia, alle parole vuote dei politici, agli inutili minuti di silenzio, alle patetiche polemiche e agli stomachevoli confronti con quanto accaduto a Lampedusa, alle consuete strumentalizzazioni mediatiche e politiche della vicenda, lo spettacolo di Paolini mi sembrava una delle poche testimonianze degne di essere ascoltate su quei lontani avvenimenti. 
Allora perché trasmetterlo ad un orario impossibile? Mi si dirà: vabbè, ma se uno vuole vedersi lo spettacolo si può comprare il dvd, se lo poteva registrare o meglio ancora lo può cercare comodamente su youtube. 
D’accordo, tutto giustissimo, ma: a parte il fatto che c’è anche chi i mezzi informatici non può o non li sa usare, poi la tv di stato in ogni caso si presuma debba offrire un servizio ai cittadini, e di qualità ci si augura. 

Mandare in onda a tarda notte uno spettacolo così bello a me non pare offrire un servizio di qualità. In tal modo la mia malafede si mette in moto e partorisce un’ipotesi: e se avessero consapevolmente inserito a mezzanotte Paolini? Magari il documento era sì straordinario, ma pure un po’ scomodo (visto che si fanno anche parecchi nomi e cognomi di persone direttamente coinvolte nella tragedia). 
Rimango col dubbio, ma anche con l’adagio in testa: a pensar male si fa peccato, ma molto spesso ci s’azzecca.

lunedì 7 ottobre 2013

CARMIGNANESI: UN APPROCCIO MATEMATICO

di Beniamino Fortunato


Molto bello il risultato finale dei lavori che la Parrocchia ha portato a termine dietro il Centro Giovanile rinnovando la piastra e attrezzandola a spazio sportivo multi attività che sta permettendo agli appassionati di basket e pallavolo di trovare uno spazio esterno in cui incontrarsi a praticare lo sport preferito.
Non è un segreto che Fuori Luogo, fin dalla sua configurazione cartacea, abbia scrutato con attenzione l’evolversi della vicenda attraverso interviste alle persone direttamente coinvolte (skaters Zucka e Parroco Don Egidio, nello specifico) e considerazioni che hanno accompagnato il passaggio dallo skatepark alla nuova destinazione d’uso. Non si è trattato di un caso di curiosità giornalistica congenita, piuttosto dell’occasione di osservare e provare a capire come vengono trattate emblematiche questioni legate all’utilizzo degli spazi nel paese di Carmignano.
Provare a capire il perché per innovare e portare qualcosa di nuovo e molto utile al paese sia stato necessario rinunciare a qualcosa di già esistente e altrettanto utile e frequentato rimane un modus operandi tanto malinconico quanto incomprensibile, sia umanamente che economicamente.

Ci viene da chiedere perché il risultato dell’addizione 1+1 debba rimanere 1 rinunciando alla naturale opportunità di essere uguale a 2.
Quale fattore umano ha impedito che la matematica imponesse le sue regole certe in questo pezzetto di pianura padana?
Non faremo l’errore di offrire una matematica risposta inattaccabile in una questione così sensibile ai precari umori terreni, piuttosto proveremo a suggerire alcuni elementi per evitare che irrimediabili errori matematici di questo tipo si presentino nuovamente in futuro:

A) Verificare la proprietà commutativa dell’addizione la quale dice che cambiando l’ordine  degli addendi la somma non cambia. Ovvero provate a capire se possono esistere spazi inutilizzati in cui spostarne uno dei due per evitare di perderlo;
B) Verificare la proprietà associativa dell’addizione la quale dice che se al posto dei due addendi sostituiamo la loro somma il risultato non cambia. Ovvero nessuna opportunità sarà insostituibile per sempre, i tempi cambiano, le mode cambiano e, anche per questo, non fare agli altri ciò che non desidereresti fosse fatto a te;
C) Verificare che la fatica fatta per giustificare la scelta presa non sia stata più grande di quella che sarebbe servita per parlare e spiegarsi in anticipo, evitando che una discussione si possa trasformare in un conflitto.
Sì, lo so che questa non è una proprietà dell’addizione ma comunque ha la proprietà di evitare dei bei mal di pancia! 

martedì 1 ottobre 2013

TUTTO UN ALTRO CALCIO: OBDULIO VARELA, LA DIGNITÀ DEL CAPITANO


di Roberto Pivato

«Se adesso dovessi giocare di nuovo quella finale, mi segnerei un gol contro, sissignore».

Così Obdulio Jacinto Muiños Varela, conosciuto semplicemente come Obdulio detto “el Nefe” (il nero) e “el Jefe” (il capo), rispondeva ad un sorpreso Osvaldo Soriano nella celebre intervista rilasciatagli nel 1972 e pubblicata in Futbol. Ecco, se volete un dipinto quanto mai attendibile e veritiero del grande capitano della nazionale uruguayana campione del mondo nel ’50 leggetevi Soriano. Di meglio non troverete. D’altra parte quella partita tra Brasile ed Uruguay al Maracanà di Rio de Janeiro è rimasta nella leggenda del calcio. Così come è rimasto nel mito uno dei suoi maggiori protagonisti: Varela appunto. Su di lui e su quella gara sono fioriti una miriade di aneddoti e racconti tra romanzo e realtà. Dai dirigenti uruguagi che si sarebbero accontentati di perdere 4-0, passando per Obdulio che afferra la monetina lanciata dall’arbitro e lascia come consolazione ai brasiliani il calcio d’inizio, fino all’epilogo con un imbarazzato Jules Rimet che consegna, inaspettatamente, la coppa a Varela. In mezzo il celeberrimo episodio del Jefe che dopo il vantaggio verde-oro (a proposito: fino a quel momento la casacca ufficiale del Brasile era bianca, dopo quella sconfitta verrà cambiata in quella giallo-verde che vediamo tutt’oggi), ad inizio ripresa, raccoglie palla e si porta a centrocampo lentamente, protestando col direttore di gara senza motivo, con l’unico scopo, ben raggiunto, di raffreddare l’entusiasmo incontenibile di giocatori e tifosi locali. L’Uruguay ribalterà il risultato vincendo 2-1, aggiudicandosi il mondiale del 1950 e gettando un intero paese nello sconforto.

Potete trovare facilmente il racconto dettagliato di quell’incredibile finale (che tale non era nel vero e proprio senso della parola, poiché si giocava un girone di finale all’italiana a quattro squadre di cui il match conclusivo, e determinante, era proprio Brasile-Uruguay), con le gesta epiche di capitan Varela.

Quello che qui vorremmo mettere in risalto è l’umanità di questo grande campione. Nato a Montevideo il 20 settembre 1917 visse sempre in povertà. Nemmeno il trionfo mondiale gli portò grandi vantaggi economici: «L’unica cosa che abbiamo ottenuto vincendo quel titolo è stato dar lustro ai dirigenti dell’Associazione Uruguayana di Calcio. Loro si sono fatti consegnare le medaglie d’oro e ai giocatori ne hanno date altre d’argento». El Nefe aveva sempre mal tollerato la corruzione che già serpeggiava nel mondo del calcio e i tanti sciacalli che si arricchivano con la fatica altrui. Mal sopportava inoltre, ogni forma di comando dall’alto e l’arte dell’apparire: si narra che non stringesse mai la mano all’arbitro poiché la gente non pensasse che volesse ruffianarselo e che non abbia mai posato in una foto ufficiale, perché lui era un calciatore, non un modello. Era un leader, un giocatore dal carisma straordinario, che riusciva a infondere coraggio ai compagni anche nei momenti più difficili.
Ma era anche un uomo portato naturalmente a stare dalla parte dei più deboli, degli sconfitti: «Quella sera sono andato col mio massaggiatore a fare un giro nei locali per berci qualche birra […] Tutti stavano piangendo. […] D’improvviso vedo entrare un tizio grande e grosso che sembrava disperato. Piangeva come un bambino e diceva: “Obdulio ci ha fottuti” e piangeva sempre di più. Io lo guardavo e mi faceva pena. Loro avevano preparato il carnevale più grosso del mondo per quella sera e se l’erano rovinato. A sentire quel tizio, gliel’avevo rovinato io. Mi sentivo male. Mi sono accorto che ero amareggiato quanto lui. Sarebbe stato bello vedere quel carnevale, vedere come la gente se la spassava con una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto e non avevamo ottenuto niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava  confronto a tutta quella tristezza?». Le parole di Obdulio in ricordo della sera della finale vinta ci consegnano l’immagine di un uomo amareggiato che il suo successo abbia gettato nello sconforto un paese intero. Avrebbe preferito vedere la grande festa carioca piuttosto che essere causa e partecipare della loro mestizia.

Jules Rimet consegna la Coppa a Varela


Varela morirà il 2 agosto del ’96 a Montevideo, poverissimo, dopo aver vissuto lontano dai riflettori, facendo perfino il parcheggiatore. Se ne andrà con l’amarezza di aver dato tutto per una causa che gli si è rivelata indegna: «Sono molto pentito di aver giocato. Se dovessi ricominciare la mia vita da capo, il campo di gioco non lo degnerei neanche di uno sguardo. No, il calcio è tutto uno schifo. Quando hanno provato a corrompermi non mi sono né arrabbiato, né li ho buttati fuori a calci, né li ho denunciati. Ho detto di no, che si cercassero uno con meno orgoglio di me. [...] Non vale la pena impegnarsi la vita in una causa che è sudicia e corrotta».