mercoledì 3 novembre 2010

AUTUNNO: L'ATTIVITA' FISICA DEI CARMIGNANESI



Verso la fine dellʼestate una vocina rimbomba nella nostra testa: “Ahh... è
finita lʼestate! Inizia venir buio presto... Uff... arriva il freddo... Nooo... che
scatole, si riparte con il solito tran-tran lavorativo... Quanto manca al primo
di novembre? E allʼutimo dellʼanno?”.
Chi dà troppo peso a queste voci finisce in terapia ma, purtroppo per i
milioni di psicologi disoccupati, la maggior parte delle persone, supera il
problema ricorrendo alla tattica della distrazione, che consiste nel trovare
unʼattività sportiva a cui dedicarsi con tutta lʼanima e il corpo, fino a
sfiorare il fanatismo.
Questo accade anche al/allla carmignanese. Qui di seguito riporto quattro
“figure”, viste nel nostro paese, che svolgono unʼattività sportiva
individuale, in modo amatoriale (ma con ambizione).

IL MARATONETA. Assiduo ascoltatore di Radio DeeJay, segue e sogna le
avventure sportive di Linus e Aldo Rock. Vorrebbe partecipare alla
maratona di New York anche se questʼanno (come i tre anni precedenti),
ha iniziato troppo tardi lʼallenamento. Egli compare sempre in una sera di
fine settembre, quando il sole, oramai tramontato, lascia il posto a quel
frescolino dal sapore autunnale che invita noi comuni mortali ad indossare
la giacca. Ma il nostro “Iron-Man” non teme il freddo, anzi lo sfida con:
pantaloncino corto blu, un poʼ anni ʼ80, con classica riga bianca ai lati;
calzino in spugna bianco, alto fino al ginocchio; scarpe Ribok (non è un
errore di battitura, si chiamano proprio così!) da “running” comprate in
offerta al mercato di Camisano; magliettina bianca traforata e pettorina
catarifrangente gialla; fascetta antisudore in spugna rossa, attorno alla
fronte, con polsiera abbinata sul braccio destro; cronometro da polso al
braccio sinistro; catenina dʼoro fuori dalla maglietta che sobbalza ad ogni
falcata scandendo il ritmo della corsa; cuffietta per iPod alle orecchie. Il
maratoneta parte con una falcata degna di Mennea anche se, in fondo alla
strada, rallenta vistosamente, saltella su una gamba per 3-4 metri e poi si
ferma per fare stretching: dannati crampi! Due giorni dopo sarà dal dottore
per uno strappo muscolare ed un fastidioso raffreddore.

IL PALESTRATO. Scende dalla sua Smart Roadster con plateale ardore.
Eʼ molto alto, circa 1 metro e 90, ed indossa: scarpa da ginnastica Ribok
(ultimamente vanno molto di moda); pantalone della tuta stretto sulle
caviglie; maglietta maniche lunghe che resta leggermente sollevata
allʼaltezza dellʼombelico a causa della dimensione abnorme dei pettorali;
cappellino da rapper fosforescente con la scritta di una una nota azienda
di autotrasporti di Carmignano.
Il palestrato si nota sempre per la classica “postura del palestrato”: mento
rivolto verso il cielo, mascelle serrate sguardo fisso e minaccioso; spalle
indietro e petto in fuori, braccia sospese nel vuoto e un poʼ incurvate con i
gomiti verso lʼesterno e le mani che restano distanti 15 centimetri dalle
coscie; gambe dritte e natiche strette strette, come se stessero impedendo
a qualcosa di uscire.
Il gigante mi passa accanto e, ad ogni passo, le pesanti braccia oscillano
avanti e indietro. La camminata ricorda Frankenstein di “Frankenstein
junior”. Ho paura. Abbasso lo sguardo. Lui mi saluta con la voce tipo
quella di Mario Giordano, lʼex-direttore di Studio Aperto.

LA PALESTRATA. Arriva immediatamente dopo il palestrato e lo chiama
“Amoreee!”. Lei parla con lo stesso timbro vocale di Rosa Russo Iervolino.
Che coppia! Salta giù da un Q7 bianco e raggiunge il suo uomo. Non è più
alta di un metro e 55. Che coppia!
La palestrata indossa una tutina in ciniglia rosa e viola, tutta bella
aderente che esalta le sue forme; ha gli occhi azzurri, i capelli raccolti e
tinti di “biondo Marilyn”. Le sopracciglia sono nere. Anche le unghie sono
nere (probabilmente abbinate alle sopracciglia), finte e lunghe circa 3
centimetri. Appena raggiunto il suo ragazzo nizia a parlare male delle due
nuove ragazze della palestra.

LE DUE AMICHE “DA QUESTʼANNO PALESTRA O MI BUTTO DALLA
FINESTRA”. Due amiche molto carine, simpatiche, di compagnia, ma con
qualche chilo in più. Decidono di iscriversi in palestra per prepararsi
fisicamente ad affrontare la tragica “prova costume”, in vista della
prossima estate. Fanno lʼabbonamento annuale, così, dicono, “siamo
sicure che ci veniamo con continuità da settembre fino a giugno!”.
Si lanciano in ogni sorta di attività aerobica purché richieda immensa
fatica, convinte di velocizzare gli effetti dellʼallenamento: spinning, cyclette,
tapis-roulant, ecc... Per strada si possono distinguere perché zoppicano
vistosamente e ridono vantandosi del fatto di aver la “carne greva” grazie
ad “unʼassidua attività fisica”.
Un sabato sera di fine novembre si ritroveranno in un pub a chicchierare
del più e del meno, e, davanti ad una birra e ad una porzione di patatine
fritte, stupite e scosse, si domanderanno come sia finita nei loro portafogli
quella tessera con su scritto P-A-L-E-S-T-R-A.

DAL FIUME AL MARE




L’Africa di Francesco

Francesco Baldo è un carmignanese doc che dal ’95 vive e lavora in Africa dove segue progetti di sviluppo umanitario in Somalia. Molti lo ricorderanno come figlio di Ilario, edicolante storico della piazza del paese. Approfittando del suo periodo di vacanza trascorso a casa abbiamo preso al volo l’opportunità di aggiornarci sulle sue interessanti vicende che sono un po’ anche quelle del paese dove lavora.

Ci racconti del tuo percorso professionale Francesco?
Iniziai fin da ventenne ad appassionarmi al sud del mondo anche se all’epoca mi affascinava di più l’America Latina per gli sviluppi soprattutto politici di quel che accadeva lì, mai avrei pensato di finire in Africa in quel periodo! Il sentiero che mi avrebbe portato dove sono adesso iniziò con alcune missioni umanitarie che, da volontario mi portarono in alcune martoriate zone della ex-Yugoslavia nei primi anni ’90. Una mia compagna di missione venne poi messa sotto contratto dal CEFA, una Onlus di Bologna che segue progetti anche in Africa, e da lì iniziò a svolgere il suo lavoro di Infermiera in Kenya.
Presi l’occasione per trascorrere da lei qualche settimana di vacanza e lì mi arrivò la proposta di iniziare a collaborare ai loro progetti. Detto e fatto dal ’95 al 2005 ho lavorato per il CEFA, dapprima come logista: dovevo occuparmi di acquistare i medicinali al prezzo migliore della piazza (l’esperienza da “bottegaro” qui mi aiutò parecchio) per poi prendermi cura di spedirli nel posto giusto e nel giusto stato di conservazione affinchè altri miei colleghi avessero potuto distribuirli a persone ed animali. Dopo qualche tempo diventai amministratore e iniziai ad occuparmi della rendicontazione per i finanziatori dello stato di avanzamento dei progetti. Infine divenni coordinatore di progetti fino al 2005, anno in cui venni assunto dalla FAO (Food and Agricolture Organization), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei casi di sicurezza alimentare.
E qui veniamo ai progetti che stai seguendo in questo momento…
Esatto! Il compito della FAO, in maniera più sintetica possibile, è agire in maniera che ogni abitante della terra possa disporre di almeno 2100 chilocalorie al giorno. Dato sintetico ma troppo semplificativo. Diciamo meglio che la FAO persegue la sicurezza alimentare nel mondo, che vuol dire agire in maniera che ogni persona nel mondo possa disporre ogni giorno della quantità e del genere di cibo di cui ha bisogno.
Obiettivo ambizioso! 
Si, ma oltre al cibo è importante ricordare che l’acqua potabile ha un valore importantissimo poichè con l’acqua non sana diventa difficile ritenere gli alimenti, per cui andrebbe sacrificato l’obiettivo finale.
Andiamo più nello specifico del tuo ruolo…
Io vivo in Kenya, a Nairobi, ma lavoro in Somalia. Per arrivare dove lavoro l’unico mezzo è l’aereo. E ciò da bene la dimensione delle difficoltà logistiche di un paese come la Somalia, in guerra ininterrottamente dal ’91, in cui il Sud del paese è completamente in mano a forze musulmane radicali che impediscono allo stato di essere presente ed allo stesso modo escludono anche noi delle Nazioni Unite da qualsiasi possibilità di lavorare. In Somalia la FAO agisce in modo da accrescere la capacità di pastori, agricoltori e pescatori locali di resistere ad eventuali shock imprevisti che potrebbero ridurli ad uno stato di emergenza umanitaria. Per shock intendo calamità naturali come alluvioni o siccità, oppure a virus che uccidano i loro animali o le loro colture o anche conseguenze dei combattimenti tra militari che possono impedire gli spostamenti all’interno dei territori. In più progettiamo miglioramenti delle infrastrutture che facciamo poi realizzare a loro pagandoli in maniera da rinforzare la loro capacità di cavarsela anche a fronte di imprevisti inattesi.
Quali sono le difficoltà che incontri più spesso facendo tutto questo?
Le difficoltà sono le più impensabili! Ho speso un sacco di tempo per dare un valore monetario ad un metro cubo di terra spostata dai lavoratori a cui facciamo realizzare le opere idriche: la difficoltà risiedeva nel trovare un prezzo che non fosse né troppo alto, in maniera da scoraggiare i ricchi del posto ad inserire i loro protetti come operai, ne troppo basso, per garantire la giusta retribuzione a chi ne aveva veramente bisogno.
Un altro problema che ho dovuto affrontare è stato quello di trovare un metodo di pagamento dei lavoratori che scongiurasse il rischio del caporalato, cioè il rischio di creare delle figure che potevano ricattare i lavoratori nel momento del pagamento settimanale attraverso la possibilità di farli o meno lavorare la settimana successiva. Abbiamo superato il problema affidando i pagamenti al sistema bancario informale che, a fronte di una commissione molto bassa, consente di fare arrivare soldi a qualsiasi somalo nel mondo solo trasmettendone nome, cognome, indirizzo e numero di cellulare; un sistema basato essenzialmente sulla fiducia che da anni funziona benissimo in tutto il mondo e che ha avuto una piccola crisi soltanto dopo l’11 Settembre a causa della non rintracciabilità degli spostamenti del denaro che gli Stati Uniti vedevano come una minaccia alla loro sicurezza.
La Somalia è cambiata dal 95 ad oggi?
Quando io sono arrivato lì la crisi era già in corso e la guerra ormai dura da quasi vent’anni. Ora, il problema di una crisi protratta così a lungo sta nella possibilità che venga dimenticata a favore di crisi più importanti che distolgono l’attenzione internazionale. In generale, al Sud del paese c’è un senso di peggioramento della situazione, mentre al Nord-Ovest è in atto un processo politico molto interessante: ci sono state da poco delle elezioni democratiche. Chi ha perso ha lasciato il potere senza problemi e chi ha vinto si sta dimostrando la classe politica più tecnicamente competente mai vista nel paese. Posso dirlo con sicurezza perché mi trovo spesso a sviluppare i nostri progetti assieme ai ministri competenti per agricoltura, pastorizia e pesca.
E dal tuo punto di vista da “africano” come hai visto cambiare l’Italia negli ultimi 15 anni?     
Vedo una grandissima difficoltà della gente a ricordare anche ciò che è successo ieri. C’è il grosso rischio che non esista più memoria storica in Italia. Credo che ciò sia dovuto all’invasività che ha, in ogni famiglia, quell’elettrodomestico chiamato televisione che, per sopravvivere, ha bisogno di continuare a creare informazioni mirate a far dimenticare ciò che è successo ieri.
E di Carmignano cosa dici?
Faccio molta fatica a parlarne visto che ci vengo veramente poco. Vivendo in piazza però mi accorgo con facilità di come non ci siano più le file di biciclette che alle 18, ogni sera, tornavano a casa dalle camicerie o dalla Cartiera e che vedevo passare quotidianamente quando abitavo qui. Anche i parcheggi delle grandi aziende li ritrovo ogni volta più vuoti di macchine. Penso sia una differenza importante.
Vuoi lasciarci qualcosa prima di ripartire?
Un messaggio di cui voglio farmi testimone: il mio lavoro mi mette a contatto con l’inizio di quel percorso chiamato emigrazione che voi potete vedere solo nella sua parte conclusiva. Vedo in quanti partono, vedo i deserti che devono affrontare per mesi, i rischi che corrono per arrivare in Europa attraverso viaggi che durano spesso anni. Considerate le motivazioni che spingono queste persone a partire ed affrontare rischi pazzeschi. La maggior parte di quelli che partono non arriveranno mai. Non voglio fare del buonismo ma mi piacerebbe che questa energia motivazionale che li spinge fino a noi sapessimo utilizzarla meglio come sistema paese, meglio di come si sta facendo adesso. 

L'EDITORIALE


E con questo siamo ad un anno. Un anno di Fuori Luogo corso via veloce tra gli entusiasmi neo-adolescenziali del primo numero, con l’emozione delle prime consegne casa per casa e l’attesa delle reazioni di un paese che, per quanto ricco e amato, temevamo si rivelasse pigro a reagire di fronte alla nostra proposta.
Poi via col secondo numero e tutti gli altri con sempre più la certezza di lavorare ad un’idea brillante ed apprezzata. L’attenzione che si è spostata progressivamente dall’esterno verso l’interno a ricercare in redazione di affinare l’arte, per mostrarsi attenti anche alla forma oltre che ai contenuti ed essere sempre più visibili, soprattutto per rimanere utili nel rispondere ai bisogni che di volta in volta riuscivamo a rilevare nei lettori.
E’ stato un percorso intrapreso non da giornalisti ma da una piccola redazione di appassionati volontari che, col tempo, ha provato a capire come guardare da giornalisti cercando di cambiare i propri occhi, alzando il proprio punto di vista sempre più fino a sperimentarne uno nuovo, oggettivo, non imparziale perché l’imparzialità appartiene all’indifferenza, ma di certo interessato ed attento verso un territorio a cui vogliamo così bene da essere sfacciati nel rivelarne le brutture e le contraddizioni oltreché i suoi tanti tesori.
E così è stato come smontarlo un po’ questo paese, liberarsi man mano dei legami superficiali per arrivare all’essenza e riuscire a descrivere ciò che c’è di veramente bello e ciò che rimane di proprio brutto.
Su tutto due cose: gli entusiasmi e le distinzioni.
I primi sono il carburante di un motore sociale che fermenta, scoppietta gioiosamente alimentando le rincorse agli scopi delle proprie esistenze; le seconde ne costituiscono il limite, le barriere artificiali che minano il perseguimento di questi obiettivi vitali.
Se gli entusiasmi si alimentano e riproducono all’interno dei gruppi, le sempre più frequenti distinzioni sembrano essere soltanto la scusa per creare barriere divisorie, utili soltanto a scaricare responsabilità in caso di insuccesso e riempire frustranti mancanze di risultati.
E’ un paese che fa ogni giorno un po’ più fatica ad aprire le finestre al mattino per godere di ciò che riuscirà a vedere fuori, è un paese che non conosce più il proprio vicino di casa ma conosce benissimo ciò che accade nel mondo attraverso il proprio televisore. Le tradizioni si trasformano da collante di una comunità a pretesto per distinguersi da chi ne possiede di differenti.
Carmignano non è un punto nero, siamo inseriti in un momento difficile della storia in una nazione che fatica a trovare la propria attuale identità all’interno di questo labirinto di modernità e, non dimentichiamoci, questo è solo il punto di vista non imparziale di chi scrive questo giornale oppure, vedetela come vi pare, può semplicemente diventare il pretesto per dimostrarsi differenti da come possiamo sembrare.